11 Dicembre 2023
Rivista Studio

George Orwell, padre single

di Giada Storelli


Nel gennaio 2014, sul sito web della Bbc, apparve un articolo dal titolo “Whatever happened to the term New Man?” a firma del giornalista Tom de Castella. Nell’articolo si ripercorreva la storia dell’espressione “New Man” che, a partire dagli anni Ottanta, descriveva una nuova e «exotic new species of man, happy to do the washing up or change a nappy» [una nuova specie esotica di uomini, felici di lavare i piatti o cambiare un pannolino].

Per l’Oxford English Dictionary, come riportato anche nell’articolo, per “New Man” s’intende colui che «rejects sexist attitudes and the traditional male role, especially in the context of domestic responsibilities and childcare, and who is (or is held to be) caring, sensitive, and non-aggressive» [rifiuta gli atteggiamenti sessisti e il tradizionale ruolo maschile, soprattutto nel contesto delle responsabilità domestiche e della cura dei figli, e che è (o è ritenuto essere) premuroso, sensibile e non aggressivo]. Non è un caso che tale cambiamento riguardo le mansioni dell’uomo all’interno del ménage familiare maturò negli anni Ottanta. In questo periodo, infatti, i ruoli di genere e il mercato del lavoro erano in profonda evoluzione, risultato delle lotte femministe, delle proteste giovanili e delle trasformazioni sociali del periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Come in ogni rivoluzione che si rispetti però, ci sono sempre delle figure che precorrono i tempi, segnando la strada dei grandi cambiamenti prima che questi maturino all’interno della coscienza di massa. È il caso, in questo contesto, dello scrittore inglese George Orwell, al secolo Eric Arthur Blair, un “New Man” ben prima che tale termine fosse coniato.

Nel sito theOrwellSociety.com sono raccolti una serie di saggi firmati da Richard Lance Keeble, suddivisi in tre parti, dal titolo “The Heart of the Matter” dove viene ricostruito un aspetto poco noto della figura dello scrittore, eppure fondamentale nelle sue opere come nella vita privata: la paternità. «Orwell – si legge nel terzo capitolo – had long expressed his wish to become a father. For instance, in April 1940, when his friends Rayner and Margaret Heppenstall celebrated the birth of a daughter, he said: “What a wonderful thing to have a kid of ones own. Ive always wanted one”» [aveva espresso da tempo il desiderio di diventare padre. Ad esempio, nell’aprile del 1940, quando i suoi amici Rayner e Margaret Heppenstall festeggiarono la nascita di una figlia, disse: “Che cosa meravigliosa avere un figlio proprio. Ne ho sempre desiderato uno”]. Dopo anni di tentativi infruttuosi di concepire un figlio, George Orwell e la moglie Eileen O’Shaughnessy vennero informati dal loro medico della disponibilità all’adozione di un bambino e nel giugno 1944 accolsero quello che venne ribattezzato Richard Horatio Blair. Passò poco più di un anno dell’arrivo del figlio ed Eileen morì prematuramente, all’età di 39 anni, all’ospedale di Newcastle.

Fu così che Orwell si ritrovò a crescere il bambino da solo, padre single di un figlio adottivo, una sorta di deformazione della figura paterna per la società di metà Novecento. Nonostante il consiglio di amici, che dopo la morte di Eileen cercano di persuadere lo scrittore a dare indietro il bambino, Orwell rifiutò con fermezza il loro invito e dimostrò di «padroneggiare le arti domestiche della paternità con abilità e piacere» applicandosi in mansioni assolutamente insolite, per quel periodo, al ruolo paterno. «My father – racconta Richard Horatio Blair a Richard Lance Keeble – was completely devoted to me. When Eileen died, he really cared for me, which was very rare at that time. He fed me, changed my clothes and nappies, he gave me baths: most fathers at that time never did that sort of thing» [Mio padre… mi era completamente devoto. Quando Eileen morì, si prese davvero cura di me, cosa molto rara a quel tempo. Mi dava da mangiare, mi cambiava i vestiti e i pannolini, mi faceva il bagnetto: la maggior parte dei padri a quel tempo non faceva mai cose del genere]. Non è di certo una novità la sensibilità anticipatrice di Orwell riguardo ai temi della società moderna – il caso più famoso è senza dubbio la contemporaneità delle questioni che trattò nel suo romanzo 1984 – ma altrettanto significativo è stato il suo contributo a dimostrare, con il suo esempio monogenitoriale, che una forma alternativa di uomo, padre e famiglia era possibile.

L’idea progressista di Orwell riguardo la paternità nasceva come reazione al rapporto difficile con suo padre – l’approvazione del quale lo scrittore ha sempre ossessivamente rincorso – e alla sua vicinanza al pensiero anarchico riguardo l’educazione dei bambini. Tale pensiero Orwell lo condivideva con un fotografo di origini italiane, Vero Recchioni, naturalizzato inglese con il nome di Vernon Richards. I due non solo sostenevano le idee del movimento anarchico inglese, ma convenivano anche nell’ideologia relativa alla funzione e all’uso dell’immagine, in particolare sul ruolo di quella fotografica nella costruzione di una nuova società. Fu così che nel 1946 Richards realizzò in una serie di scatti George Orwell con il figlio, foto uniche nel loro genere e rimaste inedite fino al 1992 per via della refrattarietà dello scrittore all’obiettivo fotografico. Vernon dunque documentò la spontaneità e l’affetto di un padre mentre gioca con suo figlio in intimità o spinge per strada il passeggino. Secondo lo scrittore farsi ritrarre in posa sarebbe stata una palese distorsione della realtà, perché il suo intento, e quello di Richards, era di trasmettere quel moment of truth, quel frammento di verità, che costituiva la base del credo fotografico di entrambi. Oggi tutta la serie di scatti originali è conservata alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia nel Fondo Fotografico Vernon Richards, che si compone anche di un nucleo di immagini relative alla famiglia del fotografo e di alcuni amici anarchici, pervenuto grazie a Fiamma Chessa curatrice dell’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa.

Una di queste fotografie, e altre di Richards, sono le protagoniste di alcuni dipinti dell’artista Giulia Andreani nell’esposizione LImproduttiva, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, visitabile fino al 10 marzo 2024. In questo corpus di dipinti l’artista ha rielaborato fotografie del periodo intorno alla Seconda guerra mondiale attraverso il patrimonio documentale di Istoreco (Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea), dell’archivio privato dell’Ex Ospedale Psichiatrico San Lazzaro conservato presso la biblioteca scientifica Carlo Livi e della Biblioteca Panizzi. «Quando stavo lavorando alla mostra – spiega l’artista Giulia Andreani – mi sono imbattuta nel Fondo Vernon Richards. Il nucleo di foto di Orwell con il figlio adottivo mi colpirono particolarmente per due aspetti: il primo perché ritraggono un George Orwell diverso dalla solita narrazione di uomo schivo e freddo e dall’altra per il suo essere padre in un modo assolutamente rivoluzionario per l’epoca».

I temi della genitorialità, del femminismo e della divisione dei ruoli di genere per Andreani sono molto importanti nel suo lavoro e da qui la scelta di produrre questi dipinti: «Mi interessano particolarmente questi temi non solo a livello politico e sociologico ma anche nella rappresentazione nella storia dell’arte. Infatti sono molto rare le immagini di padri affettuosi, che esulano lo stereotipo biblico, perché considerato poco virile e quindi raramente raffigurati nella storia dell’arte occidentale». Le opere che ripercorrono la storia e l’intreccio di queste famiglie sono ospitate all’interno dell’ultima sala dell’esposizione alla Collezione Maramotti, dove sono raccolti alcuni ritratti che Andreani ha riprodotto di Orwell con il figlio, della moglie Eileen O’Shaughnessy e di Vernon Richards con sua moglie Maria Luisa Berneri, pensandola «come una grande famiglia anarchica allargata».


(Rivista Studio, 11 dicembre 2023. Traduzioni tra parentesi quadre di Umberto Varischio)

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