di Alessia Dulbecco
Per circa dieci anni ho lavorato all’interno di alcuni Centri Antiviolenza. Ogni giorno incontravo donne che si recavano allo sportello per raccontare episodi di maltrattamento o violenza cercando sostegno per comprendere l’accaduto e trovare le risorse per allontanarsi dalla condizione sperimentata.
Come ricorda la terapeuta Dolores Mosquera nel suo recente volume Libera, la violenza di genere è un fenomeno endemico, strutturato e pervasivo. In Italia, secondo i dati Istat, coinvolge più del 30% delle donne: è facile che nella vostra cerchia di amicizie ce ne sia almeno una che si è dovuta rivolgere a un Cav per affrontare una situazione di questo tipo.
È stato in quel periodo che ho realizzato non solo quanto il fenomeno fosse diffuso, ma soprattutto quanto fosse difficile capire come superarlo o almeno arginarlo a causa di una varietà infinita di espressioni. Nell’arco di dieci anni di lavoro sul campo ho incontrato tantissime donne invischiate in relazioni abusanti; erano italiane e straniere, giovani e meno giovani, con o senza figli, con o senza lavoro e rete sociale, a volte del tutto prive di documenti. Ogni caso era a sé, ovviamente, eppure tutti presentavano delle analogie. Pochissime erano le survivors interessate a denunciare alle autorità quanto subito, alcune per paura di subire ritorsioni che temevano di dover fronteggiare da sole, altre perché avrebbero voluto trovare un modo diverso per affrontare l’accaduto; molte guardavano con preoccupazione l’ingresso dei servizi territoriali, altre riferivano della difficoltà nel narrare quanto subito davanti alle forze dell’ordine, perché venivano sminuite e prese poco sul serio nel loro racconto.
In ragione della loro storia, i Cav sono ancora oggi spazi a cui si accede liberamente, indipendentemente dal fatto che si voglia o meno sporgere denuncia. Tuttavia, il loro operato si colloca in sinergia e in continuità con quello delle istituzioni, che entrano in campo quando è necessario attivare procedure molto delicate, come il trasferimento della persona all’interno di luoghi protetti per garantirne l’incolumità, o quando sono presenti minori, nei confronti dei quali l’attuale ordinamento garantisce (o impone, a seconda del punto di vista) di continuare a incontrare l’altro genitore, in luoghi sicuri e sempre con la presenza di un educatore, almeno fino al momento dell’accertamento di quanto accaduto.
Questo articolo si interroga su un tema delicatissimo, quello che intercorre tra l’abuso in ambito relazionale (che in inglese si definisce intimate partner violence, IPV) e le forme, previste dalla legge, di tutela per le vittime e di pena per gli aggressori.
Per l’opinione comune, assicurare una punizione è l’unico modo per poter risarcire chi ha subito un sopruso. Questo ragionamento vale per tutti i reati contro la persona, ma è ancora più sentito nei confronti di quelli che hanno a che fare con l’IPV. La relazione affettiva, infatti, è vista come ulteriore motivo che dovrebbe spingere a non picchiare o abusare della persona con cui si condivide la vita, ignorando di fatto che è proprio il contatto e l’intima vicinanza ad abbattere quelle barriere che la rendono più probabile. Proprio per queste ragioni la legge 69 del 2019 che ha introdotto il cosiddetto “Codice Rosso” ha ulteriormente inasprito le punizioni per i persecutori e, teoricamente, rafforzato le tutele per le vittime di questi reati.
Secondo la giornalista Sarah Schulman, l’attuale risposta istituzionale alla violenza di genere, basata su logiche punitive, ha finito per sostituire quella che avevano previsto i movimenti femministi, basata sull’attenzione verso le sopravvissute e sulla critica al sistema culturale che autorizza quella stessa violenza.
All’interno dei Cav, infatti, la denuncia viene concepita come il punto di arrivo di un possibile percorso, certamente non come il punto di partenza. La narrazione dominante, invece, ha fatto di questo strumento una sorta di leitmotiv, un tema ricorrente presentato come il rimedio perfetto per diverse ragioni: mette la vittima nella condizione di ottenere un risarcimento del danno subito, porta il maltrattante in prigione, una volta accertate le sue responsabilità, educandolo a non commettere nuovamente il reato. Non solo, per alcuni può fungere da deterrente sociale, affinché altre persone, spaventate dalle ripercussioni penali, non agiscano lo stesso comportamento.
Se consideriamo le statistiche, il numero di femminicidi e i dati che ogni anno i Cav rendono noti, però, dovrebbe essere chiaro a tutti che lo scetticismo delle donne rispetto al sistema dovrebbe quantomeno essere ascoltato. Punire i colpevoli con il carcere o misure alternative non ha limitato i maltrattamenti o la possibilità di una reiterazione degli stessi. In alcuni casi infatti si è giunti a una drammatica escalation di violenza culminata con la morte della donna, che non si è riusciti a proteggere come sarebbe stato necessario.
Appurato il mancato funzionamento delle politiche a contrasto della violenza di genere, viene da chiedersi perché si insista a mantenere inalterato questo modello e, soprattutto, se sia possibile tratteggiare un’alternativa. Come è facile intuire, si tratta di una domanda particolarmente complessa, che non può certamente esaurirsi in un articolo. Per accennare ad una possibile risposta, però, è necessario operare dei distinguo: il primo è tra intenzioni individuali e logiche di sistema, il secondo è tra punizione e responsabilità.
A fornire spunti interessanti per dirimere la prima questione ci ha pensato Schulman che nel suo volume Il conflitto non è abuso ha sottolineato come la legge imponga di risolvere i contenziosi seguendo le sue procedure, necessariamente rigide e strutturate. Il problema è che non sempre le persone coinvolte vogliono o sono nella condizione di potervi aderire pedissequamente.
Come dicevo, è opinione comune tra le operatrici che le donne coinvolte in abusi domestici non ripongano grande fede o interesse nella denuncia, spesso per paura di doversi scontrare con quell’apparato istituzionale di cui temono il funzionamento, troppo farraginoso, lento e schierato per poter rispondere davvero alle loro necessità. Nelle attività che svolgevo con loro emergeva con chiarezza la consapevolezza circa il fatto che non avrebbero ricevuto alcuna giustizia attraverso il ricorso alle forze dell’ordine, che non si sarebbero sentite più tranquille o garantite nei loro diritti, ma che anzi questi avrebbero potuti esser messi in discussione a causa di una cultura dominante che ancora imputa al genere femminile parte della responsabilità delle azioni subite.
Per evitare che quanto esposto possa essere travisato credo sia necessario ribadire con forza un punto: quello che, seguendo il ragionamento di Schulman, intendo sostenere non è che non esistano i ruoli; è necessario riconoscere alle persone coinvolte nella dinamica di violenza status diversi. Ci sarà, cioè, una che ha subito un certo comportamento violento e una che lo ha agito (e, nelle relazioni etero, la connotazione di genere è statisticamente chiara). Quello che intendo dire però, è che spesso non ci sono solo queste due variabili.
L’attuale sistema, basato su logiche punitive, offre risposte che semplificano situazioni complesse, come del resto tutte quelle che prevedono sentimenti e vissuti condivisi tra persone. Non solo: tende a omettere o ignorare il modo in cui, a causa della cultura in cui siamo immersi, guardiamo agli episodi di violenza. Schulman riporta a riguardo un caso interessante: stando alle statistiche, le condanne per stupro a New York, dagli anni novanta ad oggi, si sono drasticamente abbassate passando da più di quindicimila nel 1992 a circa duemila registrate nel 2010. Afferma a tal proposito: «non sappiamo se questo sia connesso alla gentrificazione, che rimuove la gente povera rimpiazzandola con fasce di popolazione in cui tanto i perpetratori quanto le vittime hanno più risorse per sfuggire alla violenza o evitare le condanne».
Il caso riportato dalla scrittrice si riferisce a un paese molto diverso dal nostro, tuttavia le domande che solleva dovrebbero essere ascoltate anche qui: siamo consapevoli dei privilegi che determinate fasce sociali hanno nell’affrontare situazioni di violenza domestica? Non è un caso se i dati ci dicono che le donne che sono costrette a far ricorso alle “case rifugio” – alloggi a indirizzo segreto a cui si accede attraverso procedure molto invasive, che portano la persona a dover rinunciare per un periodo medio lungo al lavoro, agli affetti e a condurre una vita “normale” per poter stare in sicurezza – sono per lo più straniere. Prive di una rete di sostegno e di condizioni economiche più sicure, è facile che siano costrette a entrare in un sistema di protezione che le espone ad alcuni passaggi obbligati, faticosissimi da sostenere sotto il profilo sociale e psicologico.
Cristallizzare il fenomeno della violenza domestica facendo appello a due figure distinte, quella di vittima e di carnefice, presenta alcuni rischi impliciti come quello della polarizzazione. Come ricorda la traduttrice e scrittrice Giusi Palomba nel suo libro La trama alternativa, siamo soliti affidare ai due ruoli caratteristiche facilmente individuabili: la vittima è percepita come pura e innocente, il violento come un “mostro”. Tra i compiti affidati a programmi di sensibilizzazione condotti dai Cav c’è, non a caso, quello di contrastare alcuni stereotipi duri a morire, come l’idea che gli autori di violenza siano tutte persone con disagi mentali o sociali. La povertà, la malattia e l’emarginazione diventano, per il sentire comune, caratteristiche utili per tracciare una linea di confine e far sentire chi non le vive al sicuro, rimuovendo la possibilità che la violenza ci riguardi.
Affidare ai due ruoli un’identità distinta, basata su caratteristiche evidenti, si rivela un’operazione pericolosa non solo perché rischiamo di non essere più in grado di riconoscere il maltrattante quando possiede caratteristiche che lo differenziano dal modello “mostruoso” che abbiamo in mente, ma anche per la tutela stessa delle vittime. Jodi Kantor e Megan Twohey hanno raccontato bene queste dinamiche in Anche io, il volume che ripercorre la storia dell’inchiesta che le giornaliste hanno realizzato sugli abusi sessuali a Hollywood, contribuendo a lanciare il movimento metoo. Come sottolineano a più riprese, la loro indagine ha vissuto, soprattutto nelle fasi iniziali, grandi difficoltà perché per la prima volta venivano messe in discussione le azioni di uomini, come Harvey Weinstein, ritenuti affidabili, seri e rispettabili proprio a causa della posizione ricoperta. Per quanto riguarda invece i rischi subiti dalle vittime, Schulman ci ricorda che, nel 2013, il report della National Coalition of Anti Violence Programs ha segnalato come, nei casi di abusi domestici tra partner LGBTQI, la polizia abbia commesso errori importanti, arrestando la persona sopravvivente anziché quella responsabile della violenza. Afferma l’autrice: «la persona butch, sieropositiva, straniera, senza documenti, razzializzata […] può passare più facilmente come la persona che aggredisce».
La polarizzazione e la semplificazione, pertanto, rischiano di omettere un aspetto importante che è l’orizzonte culturale che consente l’espressione di violenze e abusi nelle relazioni affettive e sessuali.
Secondo Palomba, ciò che le logiche punitive hanno prodotto è stato liquidare un problema sociale senza minimamente mettere in discussione i cardini su cui si sorregge. Per compiere quest’operazione – che ci porta al secondo distinguo – è necessario riflettere sul concetto di responsabilità. Richiamando la domanda posta da bell hooks a Maya Angelou, la scrittrice si chiede se sia possibile «rendere una persona responsabile di un torto commesso e allo stesso tempo rimanere in contatto con la sua umanità quanto basta per credere nella sua capacità di trasformarsi».
Ad oggi, il sistema punta più sulla punizione legale e su un’eventuale rieducazione (spesso impossibile a causa di un sistema carcerario in evidente affaticamento) che non sulla responsabilità. Essa viene al massimo delegata al singolo e fatta coincidere con la punizione ricevuta, ignorando però il peso che determinate pratiche culturali, più o meno esplicite, hanno nel mantenimento delle logiche della violenza contro le donne. Si tratta di una riflessione da non trascurare, soprattutto se consideriamo che negli ambienti che si occupano di IPV la teoria secondo cui la violenza si trasmette da una generazione all’altra è ormai conclamata.
Proprio per provare a interrompere questa catena è necessario ripensare il sistema. Si tratta ovviamente di un obiettivo enorme, che non può essere raggiunto partendo da un piano macro, quanto, piuttosto, da quello micro. Un possibile suggerimento offerto da Palomba, che ha studiato le pratiche di giustizia trasformativa, è quello di introdurre il concetto di accountability, una parola che va oltre il significato di “responsabilità”: «nelle pratiche comunitarie, accountability è comprendere che un dato comportamento ha avuto un effetto su altri esseri umani». Non è solo l’accertamento della responsabilità, quanto piuttosto la volontà di far parte del cambiamento necessario ad evitare che questo comportamento si ripeta in futuro.
Come dicevamo, accountability è un concetto cardine delle teorie di giustizia trasformativa, dove l’enfasi non è posta tanto sulla punizione quanto sulla messa in sicurezza della persona che ha subito violenza e sulla possibilità di spezzare la catena che potrebbe far ripresentare lo stesso problema in un altro momento. È evidente come quest’ideale di giustizia si origini da premesse che sono totalmente diverse da quelle oggi in essere: l’accountability si ricerca infatti nella persona che ha commesso il reato e in quelle, intorno a lei, che lo hanno permesso più o meno consapevolmente, alimentando ad esempio la cultura dello stupro. Essa risponde a un nuovo ideale comunitario, che rafforza il senso di appartenenza tra i suoi abitanti anziché spezzarne i legami, in una logica di condivisione che può andare a beneficio di tutti, in particolare delle donne che non hanno solo bisogno che il loro aggressore finisca in carcere, soprattutto se c’è il rischio che esca pochi mesi dopo più incattivito di prima.
(indiscreto.org, 12 maggio 2023)