L’autrice di questo articolo ha scelto di rimanere anonima.
Com’è stato accolto nelle scuole italiane il minuto di silenzio per Giulia Cecchettin? E qual è il vero volto della mascolinità tossica che non riusciamo a vedere? Per capirlo bisogna partire da un dato: la fragilità dell’identità maschile.
Era martedì 21 novembre, erano le 11 del mattino, l’aria che si respirava nelle aule delle scuole italiane incarnava la tensione della dialettica quando si fa corpo vivo e teso: in alcune aule il silenzio in nome di Giulia Cecchettin resta come di marmo a separare le parole dette prima e quelle dopo. In altre aule si fa rumore, più rumore possibile, non per gusto del caos ma per coscienza politica. Infine in aule più medie, più quotidiane l’appello nazionale al silenzio viene spezzato da risolini, battute, pernacchie fatte a mezza bocca per rompere l’imbarazzo di una posa che non si impone come il marmo, ma si appoggia come plastica posticcia sui corpi di ragazzi e ragazze che non ne colgono il valore.
In un’aula, la mia, al posto del minuto di silenzio si è acceso un dibattito che si è fatto subito antagonismo (e non dialettica), dinamiche di branco, strategie di autodifesa, reazioni istintive a una comunicazione che vede vittime e imputati senza inquadrare la struttura. Le poche ragazze di una classe di un istituto professionale hanno urlato le loro ragioni, provate dalla rabbia e dalla paura di vivere in un contesto in un cui non si sentono sicure, hanno spiegato le ragioni di un malessere legato a un contesto socio-economico e culturale che non ascolta. In quella scuola gli studenti di seconda generazione sono la maggioranza e le loro culture non sono comunicanti, ma sono isolate, tendono a radicalizzarsi e ghettizzarsi. Il bagaglio culturale di cui sono portatori diventa il marchio di fabbrica che garantisce loro l’appartenenza a una comunità, e in quanto “marchio” non dialoga, ma aggrega senza mediazione. Le ragazze hanno spiegato le ragioni di un malessere legato a quella scuola dove la sproporzione tra generi e una mascolinità tossica mai messa in discussione costringono quelle ragazze ad andare in bagno in coppia non per chiacchierare, ma per proteggersi da un costante stato di tensione. In tutta risposta alle parole delle ragazze, il resto della classe ha rioccupato il territorio facendo branco, ribadendo che «possono tornare a stare zitte e cucinare», perché «io rispetto mia madre e le donne adulte, non rispetto le prostitute». Discorsi detti per aggrapparsi a uno status quo, smorzati pian piano dall’apertura di un dialogo con l’insegnante (che sarei io) durante il quale i ragazzi si sono placati e richiamati reciprocamente a stare attenti, con serietà, promettendo di riflettere su quanto detto (ho raccontato un’esperienza personale).
Alla fine della conversazione sul volto dei ragazzi è apparso uno sguardo confuso, incerto, scomposto, decostruito verrebbe da dire, e silenzioso (finalmente). Il giorno dopo, tuttavia, quello stesso sguardo si è tradotto nello sguardo competitivo di chi sente di aver perso un po’ di territorio e vuole riconquistarlo: i ragazzi schierati mi hanno chiesto, con fare provocatorio, di parlare dei “froci” o di riaprire il discorso, spalleggiandosi, rinviandosi battute e pacche sulle spalle. Dovevo aspettarmelo: i ragazzi cercano l’identità di branco pur di riappropriarsi di un qualsiasi tipo di identità, pur di non rimanere nudi davanti alla realtà. E quella nudità la percepiscono più facilmente quando non hanno un’identità individuale strutturata (e con strutturata intendo “pensata”, e quindi in grado di attutire i colpi della contraddizione).
Un volto della mascolinità tossica
«Io non so come fai a stare in quelle situazioni mantenendo la calma, io impazzisco per comportamenti maschilisti molto meno espliciti», mi ha detto una mia amica quando le ho raccontato la vicenda. E anch’io, devo dire. Perché mi innervosisco per un mio amico che mi interrompe mentre parlo, sovrappone la sua voce alla mia, e non provo rabbia (tra le tante emozioni provate) di fronte a queste dinamiche scolastiche? Credo che una prima risposta riguardi le responsabilità: la responsabilità di un quindicenne è limitata se, per adeguarsi a un contesto che non gli dà strumenti conoscitivi necessari per emanciparsi, assume marcati ruoli di genere. Perché quel quindicenne è in gran parte frutto della classe sociale, del sistema sociale e culturale che gli ruota attorno, è in gran parte frutto di una porzione di realtà che è stata ghettizzata, ignorata, bistrattata in maniera classista dagli strati più privilegiati della società, come se mettere la testa sotto la sabbia eliminasse i problemi.
In secondo luogo la risposta sta in una egoistica, intima, individualistica percezione di pericolo e fastidio: quando entro in quelle classi, so che sto uscendo dalla mia bolla e che sto entrando in un’altra Italia, che pure esiste, che pure è viva, ma che teoricamente non permea la mia sfera privata, quella che ho scelto per me. Insomma, non sento violata la mia intima scelta di vivere in un certo modo. Non sento violata la mia libertà. Ma credo che ci sia anche un’altra motivazione: dietro quell’attaccamento disperato a valori inossidabili e assoluti come “la Famiglia”, “la Rispettabilità”, “l’Onore”, “la Donna pura”, credo ci sia l’attaccamento di chi sa che quelle maiuscole sono l’unico capitale di cui dispone. Se non so chi sono e chi sarò (o peggio: ho l’impressione di essere condannato a essere sempre, fino alla morte, questa persona qui), allora il mio avanzamento si misura per progressive acquisizioni di sicurezze: la mia impressione di non esistere e di non avere un’identità “pensata” porta alla ricerca spasmodica di sintomi della mia esistenza, in una sua manifestazione tutta esteriore. E se la donna è uno di questi “sintomi”, se è veramente un’emanazione della mia esistenza e non una persona autonoma, allora il mio affetto potrebbe assumere le sembianze del controllo per proteggerla, la donna. Proteggerla anche dalle sue stesse scelte, certo, cosa c’è di male, perché proteggere lei vuol dire proteggere un surrogato della mia persona.
L’altro volto della mascolinità tossica (lo stesso, ma più agiato)
«Noi non siamo talebani, io non ho mai insegnato a mio figlio a maltrattare le donne. Parlavamo spesso in casa di questi temi, soprattutto quando i ragazzi partecipavano agli eventi organizzati dalla scuola»: in quegli stessi giorni ho sentito queste parole, pronunciate dal padre di Filippo Turetta in un’intervista. «Noi non siamo talebani» è un’espressione curiosa e sintomatica che, al di là delle speculazioni educative che sicuramente l’intera vicenda ha attratto, lascia trapelare l’idea di un “noi” e di un “loro”, da un lato pace e armonia, dall’altro violenza e maschilismo, come se il maschilismo passasse solo attraverso le imposizioni violente e non attraverso la propagazione di strutture di pensiero, spesso implicite. Noi non siamo come loro, come gli stranieri, come i terroristi, come i pazzi che si fanno esplodere o che massacrano una ragazza a morte perché non si è coperta bene, quindi non posso essere colpevole, sembra dirci il padre. Io ho dato tutto a mio figlio, gli ho voluto bene a quel bravo ragazzo che andava bene a scuola e che faceva sport, e che poi ha accoltellato a morte la ragazza. Eppure c’è in questa storia, in questa presunta purezza e perfetta piccola borghesia italiana, uno scollamento tra ciò che si dice e ciò che accadeva (anche prima dell’omicidio) che continua a riportarmi a Pastorale Americana [romanzo scritto nel 1997 da Philip Roth], a una famiglia che è anche Storia e cultura, allo sconcerto di una culla che si crede sicura e caritatevole, ma che in fondo non si conosce, che non si pone domande trascinandosi in una tranquillità bovina, e che alla fine si scopre nutrice di una violenza senza capo:
«Marcia cominciò a ridere dell’ottusità di cui avevano dato prova davanti alla fragilità di tutto il meccanismo, a ridere di tutti loro, colonne di una società che, con sua grande gioia, stava colando rapidamente a picco; a ridere e a mostrare il proprio godimento per l’ampiezza che aveva preso il disordine galoppante, apprezzando enormemente l’attaccabilità, la fragilità, l’indebolimento di cose che avrebbero dovuto essere robuste. Si era aperta una breccia nel loro fortilizio, persino nella sicura Old Rimrock, e ora che era aperta non si sarebbe più chiusa. Non si riprenderanno mai. Tutto è contro di loro. Tutte le voci che dall’esterno condannano e ripudiano la loro vita! Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov?»
Cos’ha la loro vita, la nostra vita piccolo borghese che non va? Cosa c’è di sbagliato in una cultura che conforta il figlio maschio prediletto raccontandogli che può ottenere tutto, basta volerlo, basta impegnarsi, basta andarselo a prendere, basta rifiutare il fallimento, basta mettere su famiglia e dare l’impressione di essere una persona risolta, basta performare, basta tenere tutto dentro perché fuori è ovunque competizione (la stessa competizione delle classi sociali più disagiate, ma con beni posizionali diversi), basta – in sostanza – percepirsi infallibili per essere veramente infallibili? Cosa c’è di sbagliato in un mondo dove soprattutto gli uomini acquistano dignità solo in base al bottino che ottengono? Di sbagliato, forse, c’è che in questo mondo gli uomini fanno fatica a creare relazioni, dove per “relazione” non si intende la dinamica gruppale, ma si intende la capacità di uscire da sé stessi per entrare a contatto con l’altro, perché uscire vuol dire entrare nell’ignoto, e quindi nella debolezza, e quindi nella sconfitta. Di sbagliato c’è che se si vive sempre, unicamente, la propria dimensione personale, l’altro diventa un feticcio e il sé diventa una prigione, la paura di instaurare una relazione sincera alimenta un’identità fondata sul vuoto di esperienze e riflessioni, la persona si riduce, ancora una volta, a marchio che non dialoga. C’è di sbagliato che, quando questo tipo di cultura mostra le sue falle, quella stessa cultura reagisce battendo i piedi e chiedendosi come mai, oppure inoltrandosi in litanie melense sui peccati del mondo e dei maschi, scambiando questo mea culpa vittimista per elaborazione del problema. E questo accade perché ciò che resta è sempre la solita esaltazione del bel, bravo, figlio maschio che può tutto, tranne sminuirsi. Questo è il nocciolo che permea le due Italie, quella dei “buoni” e quella dei “cattivi”, che riproduce gli stessi schemi ma con beni posizionali diversi, e si chiama mascolinità tossica, maschilismo, ossessione del potere e – nei casi estremi – femminicidio. Per decostruire, in sostanza, non basta scegliere a quale gruppo aderire (per semplificazione, maschilista o femminista), bisogna entrare nel gruppo antagonista ed esporsi, rompere la dinamica di branco e accedere alla relazione significativa. «L’infelicità degli uomini nei loro rapporti, il dolore che provano per il fallimento dell’amore, nella nostra società passa spesso inosservato perché in realtà alla cultura patriarcale non importa se gli uomini sono infelici. […] I costumi patriarcali impongono agli uomini una sorta di stoicismo emotivo in base al quale sono più virili se non provano sentimenti ma, se per caso dovessero provarli e quei sentimenti li ferissero, l’unica reazione virile sarebbe soffocarli, dimenticarli, sperare che spariscano. […] Una volta pensavo fosse una cosa da donne, questa paura degli uomini. Ma, quando ho cominciato a discutere con gli uomini dell’amore, li ho sentiti più di una volta parlare della paura degli altri maschi. Gli uomini che provano sentimenti, che amano, spesso nascondono le loro emozioni agli altri uomini per paura di essere attaccati e ridicolizzati. Questo è il grande segreto che tutti condividiamo: la paura della mascolinità patriarcale che impregna la nostra cultura», diceva bell hooks.
(L’Indiscreto, 6 dicembre 2023)