1 Agosto 2019
Dire

In Lombardia codice fiscale su schede dei centri antiviolenza donne: il no di Cadom e Cadmi

di Annalisa Ramundo


ROMA – Una raccolta dati centralizzata delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza, anche attraverso il codice fiscale. Succede in Lombardia, dove la Regione ha predisposto una scheda informatizzata– che le operatrici dei centri devono compilare al momento della presa in carico – legando alla compilazione di questa scheda il destino delle convenzioni centri-Regione, quindi dei finanziamenti, che sono per la maggior parte quelli nazionali erogati dal Dipartimento Pari Opportunità (Dpo). A dire ‘No’ sono i centri antiviolenza lombardi, tra cui il Cadom-Centro Aiuto Donne Maltrattate di Monza, il Cadmi-Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano, Aida-Associazione Incontro Donne Antiviolenza di Cremona, il Mia di Casalmaggiore, l’associazione Donne Contro la Violenza di Crema e il centro ‘Tua e le Altre’ di Sondrio, che considerano l’inserimento del codice fiscale una “schedatura” delle donne maltrattate. Un ‘No’ che, scaduta la Convenzione gennaio 2018-giugno 2019, per il prossimo semestre vede il Cadom ufficialmente fuori dai finanziamenti e dai quattro sportelli gestiti – in accordo con Regione e Comuni – a Monza, Lissone, Brugherio e Seregno. Come pure Cadmi, fuori dalle reti dell’hinterland di San Donato e Corsico.

IL TAVOLO ANTIVIOLENZA REGIONALE E LE PAROLE DELL’ASSESSORA PIANI 

L’ultimo atto della vicenda si consuma il 22 luglio scorso, quando si riunisce il tavolo antiviolenza regionale, che, dopo il suo rinnovo, conta oltre 70 membri tra centri antiviolenza accreditati, forze dell’ordine, magistratura, enti pubblici e Comuni capofila delle reti interistituzionali. “L’assessora alle Politiche per la famiglia, genitorialità e Pari opportunità, Silvia Piani, nonostante le nostre perplessità esposte in questi anni, ha dichiarato che sul codice fiscale andranno avanti e che chi non compilerà la scheda Ora (Osservatorio regionale antiviolenza, ndr) sarà fuori dalle reti”, racconta alla Dire Manuela Ulivi,avvocata civilista e presidente del Cadmi, con Cadom nella rete nazionale dei centri antiviolenza D.i.Re.

“Ci sono arrivate due letterine in cui ci viene detto che chi non compilerà questa scheda è fuori dalle reti, una decisione che non rispetta gli articoli 7, 8 e 9 della Convenzione di Istanbul, in cui si fa riferimento a coinvolgimento e cooperazione con Ong e organizzazioni della società civile”, continua Ulivi, che ricostruisce come la Regione Lombardia arriva a quello che i centri antiviolenza che si sono ribellati hanno definito in un comunicato stampa dell’11 luglio “una forma di ‘violenza economica’ inaccettabile per le donne”.

DALLA COLLABORAZIONE CON I CAV ALLA ROTTURA 

“Nel 2012 la Regione Lombardia si è dotata di una legge in materia di violenza e noi della rete dei centri abbiamo aiutato l’ente a costruire un quadro sulla situazione regionale, fornendo informazioni sul tipo di schede che utilizzavamo per raccogliere i dati. Fatto questo lavoro, la Regione ci ha proposto una raccolta dati centralizzata a fini statistici, con una responsabilità condivisa tra noi e Lombardia informatica (digital company regionale, ndr)”. Una scheda unica per tutti i centri “che include dati sulla persona su cui noi avevamo già puntualizzato di dover garantire anonimato e segretezza, perché questa è la metodologia dell’accoglienza riconosciuta come pratica positiva dei centri antiviolenza anche dall’Intesa Stato-Regioni del 27 novembre 2014”. I problemi arrivano “con le delibere di Giunta, con cui nel tempo vengono sempre più pressate le questioni rispetto al tipo di dato da inserire in questo riquadro- sottolinea Ulivi- e viene fuori che l’unico modo per la Regione per non avere un dato sporcato o replicato è l’inserimento del codice fiscale. Ma se questo dato viene fornito, allora può anche essere intrecciato? Se lo intrecci, sicuramente vieni a conoscenza di chi è la donna”.

IL PARERE DEL GARANTE DELLA PRIVACY 

E proprio su questo aspetto anche il Garante della Privacy è intervenuto nel 2015, sollevando tre rilievi. “Il Garante nel suo parere ha scritto che c’erano prima di tutto delle criticità dal punto di vista tecnico e che occorreva procedere ad un’anonimizzazione del dato, per cui a livello statistico nei report annuali regionali non bisogna far emergere quelli relativi a un determinato Comune sotto certi numeri, perché sarebbe facile identificare le donne- spiega alla Dire Erminia Belli, rappresentante del direttivo del Cadom, attivo a Monza con 40 operatrici volontarie e 10 professioniste specializzate dal 1994- Nel secondo rilievo il Garante ha dubitato che il consenso alla raccolta di dati sensibili in questi casi sia validamente prestato da parte della donna, che si trova in una condizione di massima vulnerabilità; il terzo e ultimo rilievo è che per fare le statistiche non serve il codice fiscale“. Ma la Regione “si è messa a posto solo sul primo aspetto, dal punto di vista dell’output del dato statistico, non sugli altri due a cui ha risposto in modo generico”, tanto che il Garante ha scritto ancora nel 2017. Il problema, per il Cadom, è “l’input, perché anche se i dati vengono anonimizzati, restano nel sistema come una sorta di schedatura della donna, una stigmate che si basa su una momentanea fragilità causata dalla violenza domestica, che però, tramite un percorso di accoglienza e ascolto, può essere superata”. Il sistema dell’inserimento dei dati sensibili nella scheda, che “per qualche tempo siamo riuscite ad aggirare- spiega Ulivi- è diventato stringente da giugno. Su questo modulo, tra l’altro, si registra la cosiddetta presa in carico, corredata con aspetti legati a questioni sanitarie o giudiziarie, quindi al professionalismo”. Tradotto, “la donna può uscire dalla violenza solo se si riconosce debole e bisognosa di sostegno psicologico e azioni giudiziarie- osserva la presidente di Cadmi- Non si fa centro antiviolenza con i professionalismi che ne sterilizzano la politica, cioè il femminismo- avverte l’avvocata- ma con la scelta dell’empowerment femminile”.

CADMI: “SI INTACCA LA RELAZIONE CON LA DONNA”

Per Ulivi la questione “non è ideologica, ma pratica”, perché ad essere intaccata è la relazione con la donna: “Se le chiediamo il codice fiscale- dice- creiamo una situazione in cui non c’è più l’anonimato”. L’impressione è che “vogliano controllare i centri- conclude l’avvocata- e che decidano di finanziarli in base a come e quante donne ricevono, quando già esiste un sistema di rendicontazione molto preciso”.

CADOM: “CONTINUEREMO A LAVORARE AUTOFINANZIANDOCI”

“Noi non ci arrendiamo. Continueremo a lavorare e ad accogliere le donne, con progetti a bando e autofinanziamento, con cui pagheremo le consulenze psicologiche e legali prima coperte dai finanziamenti regionali”, annuncia Belli, che chiude con una nota di speranza: “Proprio il 22 luglio, lo stesso giorno del tavolo- racconta- abbiamo saputo che la Fondazione Monza e Brianza ha scelto di finanziare un nostro progetto di prevenzione nelle scuole. È un importante attestato di riconoscimento dal territorio. Anche per questo non ci fermeremo”.

PIANI (REGIONE LOMBARDIA): “NO CAV A CODICE FISCALE È IDEOLOGICO”

Trovo ideologica e strumentale la presa di posizione dei centri antiviolenza che si rifiutano di inserire nella scheda di registrazione delle donne prese in carico il codice fiscale. Il codice fiscale non è tracciabile perché è cifrato e nessuno lo potrà mai vedere, se non l’operatrice del centro. Su questo punto non tornerò mai indietro, perché lo ritengo una cosa sacrosanta e anche utile rispetto a ciò che vado a fare con dei soldi pubblici”. Non usa mezzi termini l’assessora alle Politiche per la famiglia, Genitorialità e Pari opportunità della Regione Lombardia, Silvia Piani, per difendere il nuovo requisito che, a partire dalla programmazione 2020-21, obbligherà i centri antiviolenza lombardi a inserire il codice fiscale delle donne prese in carico nella scheda informatizzata Ora (Osservatorio regionale antiviolenza, ndr), pena l’impossibilità di accedere ai bandi regionali – che saranno pubblicati a breve – e quindi ai finanziamenti.

Un requisito di cui “ormai parliamo da tre anni”, dice Piani, a cui però i centri della rete D.i.Re, tra cui il Cadom-Centro Aiuto Donne Maltrattate di Monza e il Cadmi-Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano, hanno detto ‘No’ – rinunciando di fatto ai finanziamenti regionali. “Con la scheda Ora (Osservatorio regionale antiviolenza, ndr) chiediamo il codice fiscale non per sapere nome e cognome delle donne che si rivolgono a un centro antiviolenza, ma per capire che caratteristiche hanno, il loro numero, se sono più o meno giovani o scolarizzate, se hanno figli, se sono italiane o straniere, se hanno un lavoro, insomma, per avere dati in forma aggregata utili a indirizzare le politiche da mettere in campo e fare in modo che siano mirate alle loro esigenze- spiega Piani- Non c’è un sistema alternativo, solo con il codice fiscale possiamo evitare di perdere il dato e che ci sia una sovrapposizione di servizi, perché le donne possono andare in 40 centri a chiedere informazioni ma forniscono il codice a un solo centro al momento della presa in carico. Così poi, alla fine della rendicontazione, riusciamo ad avere un numero reale di donne che chiedono i servizi e del numero dei servizi erogati”.

“Nel momento in cui abbiamo istituito il sistema Ora nel 2014- sottolinea l’assessora- abbiamo ascoltato i centri e abbiamo cercato di spiegare più volte la ratio che stava dietro i dati raccolti dalla scheda. Il numero di quelli che hanno sollevato il problema perchè in difficoltà a richiedere il consenso delle donne non è elevato. Fatto 100 il numero dei centri, per semplicità di calcolo, se io ne ho cinque che hanno questo problema e 95 che non ce l’hanno, evidentemente non è più un mio problema. Io dico ai centri della rete D.i.Re: fate un sondaggio e capite quante donne non si rifiutano di dare il codice fiscale, perché non glielo chiedono nemmeno”.

E sul rilievo della condizione di vulnerabilità in cui si trova la donna al momento del consenso alla raccolta dati, richiamato dai centri D.i.Re anche sulla base del parere del Garante della Privacy, Piani risponde: “Se una donna si reca in ospedale per un’interruzione volontaria di gravidanza non credo che non sia in una condizione di vulnerabilità, secondo me lo è. Il codice fiscale, però, lo deve dare perché è sulla sua tessera sanitaria, che è obbligata a mostrare per avere la prestazione. Ma nessuno saprà mai che lei è andata a fare quella cosa lì a meno che lei non sia andata a raccontarlo. Qui è la stessa identica cosa. A me risulta che dalle circa 3.600 donne che si sono rivolte ai centri nel 2014, anno in cui è iniziato in via sperimentale il sistema Ora, alle 7mila registrate solo nel primo semestre del 2018, ci sia stato un aumento esponenziale- insiste Piani, numeri alla mano- Quindi significa che il codice fiscale non è un deterrente, altrimenti non ci sarebbe stato questo incremento”. I fondi che arrivano ai centri antiviolenza sono regionali e, per la maggior parte, nazionali, erogati dal Dipartimento Pari Opportunità, che li destina alle Regioni che, a loro volta, stabiliscono dei criteri di distribuzione delle risorse. Nel caso lombardo uno di questi criteri è proprio l’immissione nella scheda del codice fiscale. “Le disparità a livello nazionale ce le abbiamo comunque- continua Piani- perché in Lombardia nel 2013 abbiamo creato una governance che non esiste in altre Regioni e che funziona, e io lo so perché sono nella cabina di regia a livello nazionale. C’è anche molta disparità rispetto ai fondi che vengono erogati, già a monte nella ripartizione delle risorse. La Regione Lombardia, ad esempio, ne prende molte di più del Molise, anche sulla base dell’espansione territoriale e del numero di abitanti”. Risorse che vengono destinate ai centri e che i centri devono poi rendicontare alla Regione. Anche per questo “la scheda ci può aiutare, perché da lì capiamo che tipo di servizi vengono erogati. In base al numero di servizi e prestazioni del centro, non al numero di donne intercettate- ci tiene a precisare in chiusura l’assessora- io erogo le risorse”.

D.I.RE AD ASSESSORA PIANI: “NO A RICATTI SU C.F., COINVOLTO DPO”

“Ancora una volta ci tocca distinguere tra un centro antiviolenza e l’universo dei servizi che si propongono per contrastare la violenza maschile. L’indipendenza metodologica resiste anche ai ricatti economici. D.i.Re non ci sta e si è attivata per coinvolgere il Dipartimento delle Pari Opportunità, richiamando un livello nazionale su quanto deciso dalla Regione Lombardia”. È la risposta della presidente di D.i.Re-Donne in Rete contro la Violenza, Raffaella Palladino, alle dichiarazioni dell’assessora alle Politiche per la famiglia, Genitorialità e Pari opportunità della Regione Lombardia, Silvia Piani, raccolte dall’Agenzia Dire sulla polemica che vede contrapposti i centri antiviolenza (Cav) della rete nazionale e l’Ente, rispetto all’obbligo – a partire dalla programmazione 2020-21 – di inserire il codice fiscale delle donne prese in carico nella scheda informatizzata Ora (Osservatorio regionale antiviolenza, ndr), pena l’impossibilità per i Cav di accedere ai bandi regionali, quindi ai finanziamenti. Palladino risponde punto su punto, a partire dalla questione della tutela della privacy. “L’assessora riprende un po’ l’idea che fornire il codice fiscale non sia una violazione della privacy e che la nostra sia una posizione ideologica. In realtà, la tutela della segretezza e dell’anonimato, che non sono assolutamente garantiti nel momento in cui una persona fornisce il codice fiscale, resta per tutti i centri D.i.Re uno dei cardini della nostra metodologia di lavoro, per noi irrinunciabile e non negoziabile. E uno dei criteri per aderire alla nostra rete, oltre a quello di rispettare la totale gratuità di tutte le prestazioni, è proprio la garanzia di riservatezza e anonimato, che sono poi il cardine della fiducia e della metodologia della relazione tra donne”. È questa metodologia, per Palladino, “quella che fa la differenza tra un centro antiviolenza e un servizio per donne maltrattate, che può essere gestito da chiunque. Quando la Convenzione di Istanbul parla di servizi specialistici parla anche di competenza specifica, di ottica di genere e di metodologia”.

Sulle rassicurazioni di Piani rispetto al fatto che il codice fiscale una volta immesso nel sistema viene cifrato e non è visibile “se non all’operatrice del centro”, Palladino commenta: “È comunque un modo per tracciarlo. Se pure l’uomo maltrattante non riesce ad individuare la donna, questo sistema è comunque un modo di entrare anche nel dato disaggregato, che è un altro tema ancora. L’assessora si contraddice un attimo dopo- sottolinea Palladino- Prima dice che non è tracciabile, perché il codice fiscale non viene reso noto, poi dice che devono studiare i dati, avere informazioni sulla tipologia di donne, sul loro lavoro, sul numero di figli. I dati servono per indirizzare le politiche? Ma questo vuol dire azzerare il senso di un rete territoriale al cui interno c’è il centro antiviolenza, che ti porta la competenza specifica”. Palladino rivendica: “Siamo sempre noi le titolari dei dati. Quello della Regione Lombardia è comunque un modo per controllare le donne. Si scrivono i dati della donna e quelli del centro di quel Comune e in quel Comune si ha una fotografia dalla quale si può rintracciare. Mi sembra un’imposizione senza ascoltare quella che la Regione sta facendo- insiste la presidente di D.i.Re- anche se poi vogliono rassicurare che il dato è criptato”.

Ma “la cosa più grave”, per D.i.Re, “resta il ricatto economico, che caratterizza la relazione sempre complessa tra i centri privati, cioè i centri antiviolenza, e le istituzioni. Questo è un tema che non viene mai focalizzato, secondo me- fa notare Palladino- ma è molto importante, perché il principio di sussidiarietà, che poi guida dal 2000 la legge 328 e tutto il sistema di delega e affidamento dei servizi al Terzo Settore, prevede una relazione in cui chi eroga il servizio si presta anche alla valutazione del lavoro che fa, ma non al controllo, e lavora secondo un criterio di autonomia e di indipendenza. Questa imposizione del pubblico di una regola così premiante alla quale, se non stai, vieni esclusa dalla rete territoriale e dai finanziamenti- osserva Palladino- è un’imposizione veramente inaccettabile, che non tiene conto della nostra storia, del riconoscimento della qualità del lavoro, dell’esperienza specifica. Il paradosso è che finiranno per essere esclusi proprio i centri con la maggiore storia ed esperienza, che non a caso sono quelli che tengono di più alla qualità del lavoro con le donne”. 

Altro punto dolente, per D.i.Re, è che “i fondi con cui si finanziano i centri non sono solo regionali. La Regione Lombardia- entra nel merito Palladino- sta decidendo anche per i fondi della legge 119, che sono quelli nazionali”. Legge 119 “che recepisce la Convenzione di Istanbul, per cui è il Dipartimento che ti dice i criteri con cui li devi distribuire, non ti puoi arrogare tu Regione, da sola, il diritto di non dare quei fondi a chi non vuole aderire a un criterio che tu ti sei data. Il Dipartimento dà alle Regioni le risorse, ma con dei vincoli- spiega- le Regioni devono darne una parte ai centri antiviolenza che hanno accreditato, che hanno i requisiti dell’Intesa Stato-Regioni (lavorare con l’ottica di genere e con la relazione tra donne), e possono dare le risorse dopo presentazione di un progetto al Dpo, che hanno redatto concertandolo con i centri antiviolenza. Il che vuol dire che la rete territoriale deve riconoscere che quella è una politica veramente efficace”. Palladino torna poi sul parere del Garante della Privacy: “C’è una risposta scritta del Garante che dice che questo codice fiscale non lo possono chiedere, ma loro si ostinano a farlo. Il margine di manovra che Regione Lombardia si prende mi sembra riguardi il fatto che loro si sentono impuniti e vanno avanti col criterio dell’autonomia regionale”. E chiude sull’indagine Istat relativa all’utenza dei centri: “Stiamo lavorando da molti mesi sul questionario Istat- fa sapere- Abbiamo trovato da ridire tantissime cose, ma loro hanno accolto molte delle nostre osservazioni. L’Istat non si permetterebbe mai di chiedere un dato sensibile. Quindi, se l’Istituto nazionale di statistica sta per partire con un’indagine in tutte le Regioni sull’utenza dei centri, proprio per fare il lavoro che l’assessora dice di voler fare, e ha concertato a lungo con noi, accettando di non avere nessun dato sensibile, non vedo perché la Regione Lombardia debba avviarsi da sola su questa strada”.


(Dire, 01 agosto 2019)

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