15 Novembre 2023
Altreconomia

La “Dottrina Dahiya” e i deliberati bombardamenti di Israele sui civili di Gaza

di Nadav Weiman*


Una delle prime cose che abbiamo fatto in quella terribile mattina del 7 ottobre, non appena ci siamo resi conto di ciò che stava accadendo, è stata quella di contattare i nostri amici e tutti coloro che conoscevamo nell’area di Gaza. Alcuni di loro a oggi non hanno ancora risposto.

Come soldato della Brigata Nahal ho combattuto a Gaza nel 2008, prima dell’operazione “Piombo fuso”. Uno dei ricordi principali che mi è rimasto impresso di quel periodo è l’enorme quantità di potenza di fuoco che usavamo a Gaza, mentre a pochi metri di distanza i palestinesi conducevano la routine della loro vita quotidiana. Da allora non sono più riuscito a staccarmi da Gaza. Nel decennio successivo ho dedicato tutte le mie energie alla ricerca sui nostri sistemi di controllo militare nella Striscia assediata. Ho tenuto innumerevoli conferenze su come si combatte a Gaza; ho parlato con soldati che sono tornati dall’ennesimo round di combattimenti; ho partecipato a panel sull’argomento, l’ultimo dei quali a fianco di Khalil Abu Yahia, residente a Gaza e attivista per la pace, ucciso la settimana scorsa da una bomba israeliana. Ho visto troppi episodi di violenza. Troppi morti. Una cosa mi è chiara: questo stato di cose non ha una soluzione militare.

Il sangue di tutti ribolle. Tutti conosciamo qualcuno che è stato ucciso, rapito, che è ancora scomparso. Molti parlano di vendetta. Opinionisti, politici, giornalisti dicono che Gaza dovrebbe essere cancellata, si riferiscono ai suoi residenti come a «2,5 milioni di terroristi», discutono di trasferimenti forzati.

Ma che cosa sta accadendo in realtà sul campo? Gaza è sottoposta a un bombardamento senza precedenti da oltre un mese a questa parte. Solo nelle prime due settimane l’aviazione israeliana ha sganciato più bombe su Gaza di quante gli Stati Uniti ne abbiano sganciate sull’Afghanistan in un anno intero. Una spiegazione è la reale necessità di Israele di eliminare le minacce alle forze di terra, ma questo non spiega completamente la portata dei bombardamenti o i loro obiettivi.

Il nostro lavoro si basa sulle testimonianze dei soldati. La raccolta e la verifica di queste testimonianze è un processo lungo e complesso e ci vorrà ancora del tempo prima di avere un quadro completo e accurato di ciò che sta accadendo sul campo. Tuttavia, le dichiarazioni degli alti ufficiali israeliani e l’entità delle distruzioni sollevano già il sospetto che l’esercito stia seguendo la stessa dottrina utilizzata nelle operazioni precedenti: la “Dottrina Dahiya”.

È stata formulata ai tempi della guerra del Libano del 2006. Il suo principio fondamentale era: attacchi sproporzionati, anche contro strutture e infrastrutture civili. Se la dottrina è davvero in gioco, come sembra, allora i massicci bombardamenti su Gaza delle ultime settimane sono deliberatamente mirati a danneggiare infrastrutture e proprietà appartenenti a civili innocenti.

I pesanti bombardamenti nella guerra del Libano del 2006 non hanno spazzato via Hezbollah o neutralizzato le sue capacità militari, né avrebbero dovuto farlo. Avevano lo scopo di creare deterrenza. Da allora, Hezbollah si è rafforzato e ora spara quotidianamente sui civili nel Nord di Israele. Anche in Libano abbiamo causato una distruzione massiccia a scapito dei civili per ottenere una calma temporanea e nulla più.

Israele ha utilizzato questa dottrina anche durante l’ultima invasione di terra di Gaza nel 2014. Dopo la guerra, i residenti di Gaza sono tornati nei quartieri che erano stati rasi al suolo. Giornalisti e soldati che hanno preso parte all’operazione hanno descritto i danni enormi. I politici e i membri dell’establishment della sicurezza hanno cantato vittoria, affermando di aver «marchiato a fuoco la coscienza palestinese», il che significa che ogni palestinese ricorderà esattamente chi comanda e non oserà opporre resistenza. L’ultimo mese ha dimostrato, ancora una volta, che questo approccio ci ha portato zero sicurezza.

Questa dottrina si basa sull’idea dei “round” di combattimento, come vengono chiamati in Israele. Non è pensato per essere decisivo, ma per rimandare e scoraggiare il prossimo, inevitabile, round. Sembra che il nostro governo stia scegliendo di ripetere, anche se con maggiore intensità, ciò che ha fatto senza successo nei round precedenti. Lo stesso portavoce delle Forze armate israeliane (Idf) ha affermato che «l’enfasi [durante questa operazione] è sul danno e non sulla precisione».

Questa dottrina è anche immorale, perché la “consapevolezza bruciante” si ottiene attraverso la distruzione diffusa dei civili. Decine di migliaia di case a Gaza sono state distrutte o danneggiate. Interi quartieri sono stati cancellati dalla mappa. Perché secondo la Dottrina Dahiya, il metodo è semplice: la potenza di fuoco deve essere usata in modo sproporzionato; ed è per questo che il risultato è sempre lo stesso: allontanare la sicurezza a lungo termine in favore di un senso di calma sul breve.

Israele è entrato in guerra a causa di un massacro criminale e orribile. Se in risposta continuiamo a distruggere in massa i civili, se continuiamo a fare del male a una popolazione che non ha fatto nulla di male, una popolazione che per oltre il 40% ha meno di quindici anni, il nostro unico risultato sarà quello di perpetuare il ciclo di violenza e spargimento di sangue. Il numero delle vittime è spaventoso: più di 1.400 israeliani e oltre 10.000 palestinesi. Non è stato versato abbastanza sangue?

E ancora: come sarà il giorno dopo la guerra? Come farà il nostro governo a garantire a tutti noi sicurezza e protezione? Sorprendentemente il nostro Gabinetto ha deciso di «non discutere il destino della Striscia di Gaza». È un lusso che non possiamo permetterci. Una cosa è certa: la risposta deve tenere conto di un futuro libero e sicuro per tutti, cittadini di Israele, residenti di Gaza e sì, anche residenti della Cisgiordania. Altrimenti, la prossima guerra è solo questione di tempo.

(*) Nadav Weiman è senior director della Ong Breaking the silence, che riunisce veterani delle forze militari israeliane che hanno prestato servizio nell’esercito a partire dalla seconda Intifada. È stata fondata nel 2004 per denunciare le violazioni compiute dai soldati in Cisgiordania. Raccoglie e pubblica testimonianze anonime di militari e organizza tour a Hebron per mostrare gli effetti dell’occupazione. Il testo, tradotto a cura della redazione, è tratto dall’ultima newsletter inviata il 13 novembre 2023


(Altreconomia, 15 novembre 2023)

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