1 Febbraio 2024
Kobo Blog

La fine degli amori

di Rosa Carnevale*


«Pensieri sparsi, per il giorno di San Valentino 2004. Oggi è una festa inventata dai fabbricanti di cartoline d’auguri per fare sentire di merda le persone. Non sono andato al lavoro oggi, ho preso il treno per Montauk, non so perché, non sono un tipo impulsivo. Forse mi sono svegliato solo un po’ depresso. Devo far riparare la macchina».

Joel e Clementine, la loro storia d’amore. Nessuno può dimenticare l’inizio di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, diretto da Michel Gondry nel 2004 e interpretato da Jim Carrey e Kate Winslet. Impossibile non aver invidiato almeno una volta nella propria vita Clementine, la protagonista, che semplicemente rivolgendosi all’agenzia Lacuna Inc. e sottoponendosi a un esperimento psichiatrico, riesce a cancellare dalla sua memoria ogni traccia della relazione con il fidanzato Joel. Una “mente candida” è una mente inconsapevole, priva di memoria e di dolore. A tutti sarà successo di voler dimenticare i ricordi legati a una relazione che sta terminando e pensare a quanti struggimenti e quanta sofferenza avremmo potuto evitare rimuovendo dalla mente l’intera storia, piuttosto che ritrovarci a piangere nei luoghi che ci ricordano una persona o sulle foto e le esperienze condivise negli anni. L’amore, ad un certo punto, fa soffrire.

Siamo fatti di relazioni, di intrecci, di momenti romantici. Ma siamo fatti, soprattutto, di rotture.

E queste rotture, che ci piacerebbe vivere come un taglio netto, uno strappo preciso e chirurgico, seppur doloroso, hanno invece contorni più sfumati di quelli che ci aspetteremmo. La vita non è un percorso logico e coerente, è fatta di linee spezzate e inciampi frequenti, di stop improvvisi e cambi di rotta repentini. La nostra vita è fatta di rotture è il titolo dell’introduzione al bel volume di Claire Marin, La fine degli amori e altri addii che trasformano la nostra vita, uscito nel 2023 per Einaudi. Un libro in cui la filosofa francese ci invita a pensare agli addii che abbiamo subito o inflitto agli altri non sempre e solo con ottimismo ma almeno con speranza. Non tutte le prove della vita sono infatti occasioni o opportunità per reinventarsi ma a tutte siamo tenuti a rispondere in qualche modo, con le risorse di cui disponiamo.

Ogni rottura, scelta o subita, è una lacerazione che ci infligge una torsione e deformazione fisica e psichica insopportabile. Quando terminiamo una relazione il disamore ci chiama a ricostruire tutto dalle fondamenta di noi stessi. Ma fino a che punto possiamo diventare un altro o un’altra? E fino a che punto è auspicabile?

«Per fortuna le rotture amorose non hanno tutte la stessa violenza», scrive Marin. «Ma la disaffezione produce comunque una scossa profonda. Chi siamo quando smettiamo di essere amati? Posso perdere le qualità che l’amore dell’altro mi conferiva senza perdere me stesso? […] Chi sono io adesso che non sono più niente per te?». Ogni rottura ci pone di fronte a interrogativi dolorosi, che non fanno che aumentare quella sensazione di andare in mille pezzi, senza riuscire più a riconoscerci e a connetterci a un Io profondo.

«Perché forse veniamo lasciati non tanto per quello che siamo ma per quello che non siamo. Perché non corrispondiamo al desiderio dell’altro», scrive ancora Marin. È questa sensazione di andare in frantumi, senza poter tenere insieme i tanti piccoli pezzettini che non sempre sentiamo appartenere solo a noi stessi, che spesso ci devasta. Non è un caso che sulla copertina del volume campeggi una delicata tazzina dai disegni orientali aggiustata con la preziosa tecnica del kintsugi (letteralmente “riparare con l’oro”), una tecnica di restauro ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per riparare tazze in ceramica per la cerimonia del tè in cui le linee di rottura, unite con lacca urushi, sono lasciate visibili ed evidenziate con polvere d’oro. Un concetto non solo artistico ma che ha profonde radici nella filosofia Zen e che invita la mente a lasciar correre dimenticando le imperfezioni e ammirando la bellezza insita anche nei cambiamenti che seguono a necessarie riparazioni. L’oggetto rotto si abbellisce con le sue incrinature dorate.

Probabilmente avrei scelto un’altra immagine per raccontare ancora meglio come ci si sente dopo una rottura amorosa. Mi piace pensare a un’opera d’arte contemporanea dell’olandese Bouke de Vries, un’urna in vetro soffiato trasparente che contiene al suo interno frammenti di vasi e piatti in frantumi. A volte rimaniamo rotti, fatti di tanti pezzettini che non si riescono più a incollare. E allora c’è bisogno che qualcosa li contenga comunque tutti, qualcosa di ugualmente prezioso e delicato. Ecco come si tengono insieme i pezzi di storie dolorose, costruendo intorno a loro un involucro che sarà più saldo tanto più saremo stati fortunati nelle nostre esperienze di vita. La violenza del lutto amoroso è smisurata proprio perché è anche la questione del mio valore che entra in gioco nella relazione amorosa, come ricorda Roland Barthes in quell’imprescindibile volume che è Frammenti di un discorso amoroso.

«Io cerco dei segni, ma di che cosa? Qual è l’oggetto della mia lettura? È: sono amato (non lo sono più, lo sono ancora?)… Non sarà invece che resto sospeso alla domanda (di cui aspetto instancabilmente dal volto dell’altro la risposta): che cosa valgo io?», scrive Barthes. Dall’innamorato che se ne va ricevo un’esperienza crudele di svalutazione. Un’esperienza da cui possono nascere sensazioni fisiche e psichiche di malessere. È l’intero mondo quotidiano che conoscevamo come coppia a svuotarsi della sua sostanza. I luoghi, gli oggetti, le canzoni che ascoltavamo non sono più un porto rassicurante.

Alcuni diventano addirittura insopportabili, proprio come succede alla giovane sposa abbandonata, protagonista di Una donna spezzata di Simone de Beauvoir. Nel primo dei racconti contenuti nella raccolta pubblicata dalla scrittrice francese nel 1976, la casalinga Monique scopre che il marito ha un’altra relazione. Nonostante ciò faccia vacillare tutto ciò in cui aveva creduto fino ad allora, permette che quest’infatuazione possa avere un seguito. Intorno a lei però tutto diventa improvvisamente ostile, estraneo e poco rassicurante: il tavolo della sala da pranzo, la casa intera e i suoi oggetti, l’automobile in cui il marito la tradisce: «L’amore di Maurice – fa dire Simone de Beauvoir alla sua protagonista – dava importanza a ogni momento della mia vita. Adesso è vuota. Tutto è vuoto: gli oggetti, i momenti. Io stessa». La rottura amorosa costringe a un necessario, nuovo distacco. Non restano che ricordi morti di luoghi, profumi, sensazioni. E allora, ecco ci prodighiamo in una cancellazione sistematica: certe abitudini svaniscono dall’oggi al domani, alcuni locali o città vengono cancellate dalle nostre mappe interiori.

Spesso all’altro abbiamo donato tutto il nostro corpo, rendendolo facile territorio da conquistare, piegandoci al desiderio come ci si piega davanti a un nemico sconosciuto che ci ha ammaliato facendoci abbassare la guardia. È quello che racconta Annie Ernaux nel suo Perdersi (L’Orma editore). Un diario intimo di poco più di duecento pagine che diventa un’indagine sull’idea di sottomissione in cui il soggetto (Annie stessa) racconta le attese e la frustrazione di un rapporto d’amore che si consuma con un uomo sposato: le paure e le insicurezze, l’attesa di una rottura percepita come inevitabile, il deteriorarsi di un rapporto e la rassegnazione con cui attendiamo la fine, in balia di scelte che non dipendono da noi. L’impotenza disperata di questa particolare storia d’amore (già raccontata anche nel romanzo Passione semplice) permette alla scrittrice francese di riflettere sul duplice significato di perdersi: quella di Ernaux è una lenta perdita della persona a cui si è legata, la cui presenza diventa progressivamente più distante nella sua esistenza, ma è soprattutto la lenta perdita di se stessa. Senza l’uomo che ama l’autrice finisce per non riconoscersi più e scopre di essere divenuta null’altro che “una comparsa” nella sua stessa esistenza.

È proprio su questi mutamenti nel nostro Io che si interroga Claire Marin. Chi siamo in questa nuova vita svuotata? Ed eravamo veramente in possesso di un Io unico e inscindibile a cui dobbiamo semplicemente fare ritorno, seppur faticosamente oppure siamo il risultato di tanti Io possibili?

«Forse non siamo fatti per un solo io. Sbagliamo ad aggrapparci a esso. Pregiudizio dell’unità», scriveva Henri Michaux.

Non sono solamente le relazioni romantiche e di coppia a essere vissute come vere e proprie perdite amorose. Allo stesso modo delle rotture con i nostri partner anche la nascita e la morte costituiscono strappi estremamente violenti, addii dolorosi con cui dobbiamo fare i conti.

È la sera del 30 dicembre 2003 quando John Gregory Dunne, sposato da quarant’anni con Joan Didion, muore all’improvviso. Da quella data inizia Lanno del pensiero magico che ha ispirato uno dei romanzi più celebri della scrittrice americana, l’opera che meglio ha saputo raccontare il lutto e il dolore, toccando ferite ancora pulsanti, aprendone di nuove direttamente sulla pagina.

Lontano dal cercare risposte scontate a domande complesse, Marin sembra mettere in crisi un odioso sistema a cui siamo da sempre legati: quello che vira verso un ottimismo e una lettura semplificatrice che abbina alle rotture l’idea del “ricomincio da capo”.

«Ci piacerebbe vedere nella rottura l’occasione di una vita nuova, di una pagina bianca, per dare un valore retrospettivo a un fallimento trasformandolo in conoscenza, in ricchezza, in esperienza. Le virtù del fallimento, insomma». Ma siamo sicuri che sia così? «A volte la rottura è solo un pasticcio, una mancanza di coraggio, una viltà. […] E spesso il fallimento è fallimento puro e semplice, misero, deludente, un insuccesso totale. La maggior parte dei fallimenti non ci insegna niente».

Quando penso all’oggi mi viene istintiva una domanda: quante rotture possiamo sopportare? Una, dieci, cento, mille? In un’epoca che ci mette davanti a continue apparizioni e sparizioni, in cui le relazioni sembrano sempre più complesse e sfilacciate, qual è la soglia che ci permetterà di tenere tutti i nostri pezzettini al riparo nel nostro prezioso e delicato vaso di vetro? Tutti gli strappi di cui racconta Marin nel suo saggio sembrano operare in un tempo dilatato, richiedere la giusta distanza e una lentezza naturale che permetta in qualche modo se non di guarire lo spirito, di tenere insieme tutti i pezzi del grande puzzle di cui è fatta la nostra vita, anche amorosa. Negli ultimi anni, in epoca di Tinder, incontri online e relazioni virtuali che hanno una natura di per sé effimera ma richiedono al nostro Io uno sforzo e un investimento non indifferente, ci stiamo chiedendo forse un ingente lavoro in più: quello di passare da uno strappo all’altro, da una rottura a quella successiva con una rapidità che non sono sicura che il nostro fisico e il nostro Io possano reggere.

Come se nella nostra epoca gli amori avessero acquisito una capacità inusuale di rigenerarsi, di nascere e finire e poi riapparire, come uno di quei mostri mitologici a cui una volta tagliata una testa ne cresce subito un’altra in un moto perpetuo e instancabile che non lascia il tempo di ricucire i pezzi di cui racconta Marin nel suo libro. A quante persone chiediamo ormai di entrare e uscire dalla nostra vita con una rapidità che prima era impensabile? La rottura da decenni si è iscritta nell’orizzonte del quotidiano, associandosi in maniera ingannevole e pericolosa a una certa idea di libertà, ha assunto una forma nuova e diversa nelle nostre esistenze e in generale. «Siamo forse entrati nell’epoca della rottura o in un momento di rottura», scrive Marin.

«Sul piano ecologico e di conseguenza economico e politico dobbiamo ripensare urgentemente il nostro modo di vivere, di comunicare, di spostarci, come anche le nostre abitudini di accaparramento delle ricchezze. […] Riconoscere la rottura sarebbe allora una prova di maturità di fronte alla necessità di un cambiamento vitale, sul piano dell’esistenza individuale come sul piano dell’esistenza collettiva: dimostrerebbe la presa di coscienza delle nostre responsabilità». Una pedagogia della rottura si fa sempre più necessaria, anche per evitare che la fine degli amori diventi presto la fine dell’amore.

(*) Rosa Carnevale, giornalista. Si occupa di arte, fotografia e libri. Ha collaborato, tra gli altri, con Artribune, L’Officiel, Rolling Stone Magazine, Lampoon, Marie Claire e Grazia. Per la casa editrice Contrasto è redattrice e consulente di progetti editoriali.


(Kobo Blog, 1° febbraio 2024)

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