6 Luglio 2022
Elle

La fotografia di Lisetta Carmi raccontava la scena LGBTQ+ prima ancora della sua definizione

di Elena Fausta Gadeschi


Lisetta Carmi era un mondo. Un mondo di libertà, coerenza, altruismo, capacità di ascolto e spirito di osservazione. Un po’ pianista, un po’ fotografa, un po’ mistica e un po’ antropologa, nella sua lunga vita ha sempre lavorato “nel segno degli ultimi”, per “dare voce a chi non ce l’ha” con una sensibilità che le ha permesso di toccare il cuore delle persone prima con la musica poi con le immagini e infine con la preghiera. Un’esistenza moltiplicata per cinque e distesa come un lungo pentagramma nell’arco di 98 anni, festeggiati lo scorso febbraio.

Nata a Genova il 15 febbraio 1924, Annalisa detta Lisetta apparteneva a una famiglia borghese di origine ebraica. A 12 anni inizia a studiare pianoforte, ma nel 1938 le leggi razziali la toccano da vicino perché viene espulsa dalla scuola. Riesce ugualmente a seguire le lezioni e a sostenere esami di livello presso il Conservatorio di Genova, ma con l’inizio della seconda guerra mondiale la sua famiglia è costretta a spostarsi in Svizzera, dove Lisetta continua con lo studio presso il conservatorio di Zurigo. Dopo il 1945 torna in Italia, si diploma in pianoforte e intraprende la sua carriera di concertista che l’accompagnerà fino al 1960 quando smette per dedicarsi a un’altra passione, la fotografia. La decisione di abbandonare la musica arriva come un atto di ribellione quando, volendo prendere parte allo sciopero di protesta indetto dalla Camera del Lavoro di Genova il 30 giugno 1960, il suo maestro Alfredo They si oppone, perché spaventato da una possibile lesione alle mani che potrebbe impedirle di continuare a suonare: “Ricordo benissimo di avergli risposto che se le mie mani erano più importanti del resto dell’umanità, avrei smesso di suonare il pianoforte”.

Avendo toccato con mano la discriminazione ai tempi delle leggi razziali, Lisetta non può accettare che si ignorino gli umili, gli emarginati, gli indifesi. Con una nuova Agfa Silette con nove rullini, acquistata in Puglia mentre era in visita alla comunità ebraica di San Nicandro Garganico, inizia il suo nuovo viaggio nel mondo. Abbandonata la carriera di concertista e ricevuti apprezzamenti per le sue istantanee, fa della fotografia la sua professione e del mezzo uno “strumento per la ricerca di verità”.

Dopo alcuni anni come fotografa di scena, nel 1964 è a Genova per un reportage sulle condizioni dei camalli, termine dialettale usato per identificare gli scaricatori di porto. Le fotografie vengono diffuse attraverso una serie di mostre. Prima fra tutte, quella alla Casa della Cultura di Genova-Calata del Porto organizzata dalla Filp-Cgil. Molto apprezzato, il suo lavoro viene esposto anche in altre città italiane ed estere, arrivando persino in Unione Sovietica. In questi anni inizia a collaborare con Il Mondo, Vie Nuove e L’Espresso. Nel dicembre 1965 è a Parigi, dove effettua un reportage sulla metropolitana, ma il suo lavoro più celebre incomincerà l’anno successivo dopo un incontro per così dire fatale che Lisetta Carmi fa, grazie all’amico Mauro Gasperini, con la comunità di travestiti che occupava l’ex ghetto ebraico di Genova prima ancora che la definizione di Lgbtq esistesse.

Da qui nasce un vero e proprio legame alimentato attivamente per sei anni, in cui la donna fotografa la realtà di quella comunità. Queste foto, inizialmente presentate solo in bianco e nero e in seguito ristampate a colori, oltre a essere del tutto insolite e percepite come scandalose dal sentimento comune dell’epoca, vanno nuovamente a mettere in luce il sentimento di vicinanza di Lisetta Carmi verso figure emarginate dalla società, riscontrabile nella maggior parte dei suoi reportage. Le fotografie, accompagnate dai testi delle interviste dello psichiatra Elvio Fachinelli, verranno poi raccolte nel libro I travestiti pubblicato nel 1972 da Sergio Donnabella, che fonda appositamente la casa editrice Essedi.

Nessuno prima di lei in Italia aveva pensato di puntare l’obiettivo verso questa comunità, tenuta lontana dal resto della popolazione da un perbenismo e una moralità che impediscono persino ai lavori della Carmi di avere diffusione nei circuiti delle librerie. Inizialmente il volume viene rifiutato dai canali di vendita ufficiali per i contenuti ritenuti scandalosi, ma con il corso del tempo acquisisce sempre più successo. In queste immagini le donne non sono immortalate con gusto voyeuristico, ma con sensibilità e garbo, e un profondo senso di rispetto, che si deve a chi non si riconosce nel corpo in cui è nato ed è in cerca di una nuova identità. “Tutto è iniziato con una festa di Capodanno a cui sono stata invitata – raccontava al Corriere –, ho scoperto la sofferenza e la solitudine di persone davvero perbene. Da allora non ho mai venduto una fotografia di quella serie perché avevo paura di rovinare questa amicizia, pensi che la Morena mi ha fatto chiamare prima di morire.”

Con questa comunità di persone Lisetta sente un’affinità che rompe ogni barriera e le consente di ottenere la loro fiducia. “Grazie alla comunità trans ho imparato ad accettarmi – racconterà –. Quando ero piccola guardavo i miei fratelli Eugenio e Marcello pensando che avrei voluto essere un maschio come loro. Sapevo che non mi sarei mai sposata, e rifiutavo il ruolo che veniva chiesto di occupare alle donne. I travestiti mi hanno fatto capire che tutti abbiamo il diritto di decidere chi siamo.” Rossetti, mascara, pizzi, calze a rete. La sensualità di queste immagini è evidente, ma non passa mai il segno. L’ispirazione sembra quasi pittorica, di quegli orientalisti dell’Ottocento che dipingevano donne adagiate su morbidi divani, tra sete e broccati, in stanze che trasudano piacere e vanità, malinconia e godimento.

Dopo quasi un ventennio di scoperte, battaglie e viaggi tra Israele, Palestina, Sud America e Afghanistan, così come aveva incominciato, abbandona la fotografa e abbraccia la religione: “in 18 anni ho fatto quello che si fa in 50”. Fatale il suo incontro in India con il maestro yogi Babaji Herakhan Baba. Anche qui una svolta, Lisetta considera finito il suo lavoro di fotografa e si dedica a mettere in piedi un luogo di spiritualità in Puglia, a Cisternino, dove aveva comperato un trullo e dove vivrà quasi cinquant’anni della sua lunghissima vita, lasciando al comune una parte delle sue foto e centinaia di libri. “Quando qualcuno sta in un posto deve lasciare qualche testimonianza, è importante” spiegava. “All’inizio è stato duro, le persone qui non avevano nessuna apertura verso il divino”, poi ne sono accorse tante da tutto il mondo. “Voglio essere cremata e poi dispersa in mare, nessuna tomba per me, voglio lasciare il segno negli esseri umani.” Queste le ultime volontà di Lisetta Corti, che ha regalato agli ultimi bellezza, spiritualità e voce.


(https://www.elle.com/it/, 6 luglio 2022)

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