5 Marzo 2024
HuffPost

Libertà di scelta non equivale a diritto

di Francesca Izzo


Contrariamente a quanto tutti hanno detto, nella Carta francese non è stata scritta la parola “diritto”. Per fortuna. Sennò si scivola sul terreno dei diritti contrapposti (quello dell’uomo, quello del feto…) e si banalizza una esperienza trascendente.


Da un po’ di tempo spirano verso l’Europa venti minacciosi per conquiste delle donne che pensavamo solide, come la libera scelta nella procreazione. Da ovest, dagli Stati Uniti arrivano notizie di drastici passi indietro in singoli Stati e dalla Corte Suprema; da est nella Russia putiniana è in atto un ritorno massiccio a un’alleanza tra tradizionalismo religioso ortodosso e Stato che non lascia presagire niente di buono per le donne, da sud premono fondamentalismi religiosi di matrice islamica che hanno nel mirino la conservazione del dominio sulle donne.

In questo clima di incertezza e di generale disorientamento, la Francia ha pensato bene di mettere in sicurezza la libera scelta femminile, costituzionalizzandola… non si sa mai. Dico la Francia e non una maggioranza politica, visti gli schiaccianti numeri che hanno approvato, a camere riunite, la proposta. E lo ha fatto con una formula che conviene citare per esteso: “La legge determina le condizioni in cui viene esercitata la libertà, garantita alla donna, di ricorrere a una interruzione volontaria di gravidanza”. Nel testo si parla di “libertà” e di “condizioni” in cui si esercita tale libertà, non di “diritto”. Ma in tutti i commenti parlati e scritti che ho letto o ascoltato la parola usata è stata invece “diritto”, anche qui su Huffpost.

Ora su un terreno così sensibile e aperto ai dilemmi etici e nel quale la differenza del soggetto femminile viene giuridicamente riconosciuta l’uso dei termini giusti è fondamentale. Parlare di libertà o di autodeterminazione nel caso dell’aborto è cosa ben diversa che definirlo un diritto. L’interruzione volontaria di gravidanza non è oggetto di esercizio di un diritto positivo, come può esserlo il diritto al lavoro, allo studio, alla salute, ecc. No, siamo in un campo diverso in cui il soggetto neutro eguale che è alla base del diritto moderno mostra i suoi limiti.

La donna è un corpo differente da quello maschile, porta in sé la potenza procreativa che l’uomo non possiede. Equiparare questa potenza/potere – sia nel suo versante positivo, come nella scelta della maternità sia in quello negativo come nella scelta dell’aborto – a un diritto significa neutralizzare questa differenza, cancellare il fatto che, mentre il diritto divide in individui, in soggetti distinti, anche in potenziale conflitto tra loro, la potenza procreativa della donna unisce, vincola il sé all’altro. La libera scelta procreativa è nello stesso tempo affermazione di responsabilità verso l’altro. Si riconosce alla donna la libertà di interrompere la gravidanza perché è lei, in ultima istanza, la sola custode e responsabile di un’altra vita. E può, per i più vari motivi, non sentirsi di farcela. Se riportiamo questa differenza femminile allo schema del diritto soggettivo, quello dell’individuo neutro-maschile, allora risulta facile far scivolare questo ambito così peculiare nella logica dei diritti contrapposti. L’abbiamo già visto: perché non prendere in considerazione il diritto dell’uomo o il diritto del feto?

Non solo, io sono persuasa che l’aborto, che sul piano dell’esperienza individuale e interiore ha il senso di “un evento importante e trascendente” (Eva Pattis), non vada banalizzato trasformandolo in uno dei tanti diritti positivamente inteso. Il testo introdotto nella Costituzione francese non va, per fortuna, in questa direzione.


(HuffPost, 05 marzo 2024)

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