8 Dicembre 2017
Associazione Laima

Lo splendore di avere un linguaggio

di Chiara Zamboni

 “Lo splendore di avere un linguaggio” è un’espressione di Luisa Muraro e a sua volta un’espressione di Clarice Lispector. La riprendo anch’io. È un’espressione che mi incanta. In tutto ciò che attrae c’è qualcosa di vero, solo che occorre tempo e pazienza per capire cosa.

Dedico questo lavoro a dipanare il significato di questa espressione.

Sono stata invitata a tenere questo intervento da Luciana Percovich. Mi ha detto il perché. Desiderava che mostrassi che il linguaggio procura molti guai a noi che siamo donne. Non ci fa immediatamente da alleato. E tuttavia che allo stesso tempo è un nostro grande alleato. A prima vista sembra una contraddizione, ma in realtà non lo è.

Obbediente al mio primo impulso di spiegare “Lo splendore di avere un linguaggio” e in seconda battuta a questo invito di Luciana, parto dalla forza che ci dona il linguaggio, mettendoci però in un ordine che non ci è del tutto favorevole. Una gabbia.

 

Impariamo a parlare da nostra madre o comunque da una donna o uomo a cui siamo da bambine e bambini legati affettivamente, corporalmente. Così che impariamo a parlare in continuità con il corpo materno, con l’affettività che questo comporta. Ma più ci distacchiamo dall’ambito della lingua materna ed entriamo nella lingua condivisa, più quel legame pulsionale affettivo con le parole viene perso. Della lingua avvertiamo soprattutto i codici e le regole. Il peso di questi codici. La lingua che ci aveva aperto affettivamente al mondo ci ritorna attraverso i linguaggi dei giornali, della scuola, delle competenze scientifiche, come uno specchio che ci sottrae l’elemento del godimento, del piacere e risulta per noi normativa. Induce comportamenti. Judith Butler, una filosofa americana, la chiama performativa. Descrivendo la realtà induce comportamenti. Una descrizione non è mai neutra.

È interessante che mentre quando ero piccola io a scuola i testi insegnavano che il babbo lavorava e la mamma era casalinga, ora i bambini (maschi) alle elementari di una mia giovane amica hanno detto, tornando da scuola, che il babbo è stanco perché lavora molto e poi li porta al cinema, sulla mamma a scuola non si dice più molto, perché in un certo senso è scomparsa: il ruolo è molto confuso. È sempre presente ma ha ruoli contradditori. In particolare questa mia giovane amica lavora, ma lavora in casa con la rete, fa da mangiare poco, li porta lei al cinema, non il padre. Non è né emancipata né femminista. I libri di scuola non sanno dare modelli su questa trasformazione femminile.

Ma modelli di emancipazione femminile per la quale una donna è contemporaneamente come un’equilibrista una buona madre, una lavoratrice creativa con la rete, una inventrice di curriculum in cerca di lavoro, una donna bella e affascinante, una dispensatrice di felicità, lo si vede nelle pubblicità.

Se i libri di scuola delle elementari sono in un momento di confusione sulla performatività dei comportamenti femminili, la pubblicità assolutamente no. Suggerisce modelli di acrobazia esistenziale.

Sappiamo bene che il linguaggio non è solo affidato alla grammatica (avvocato e avvocata, medico e medica. In italiano i generi si declinano. Se non lo si fa, è bene chiedersi come mai…) né solo alla semantica, ma alle immagini, ai comportamenti, ai gesti, agli sguardi. La pubblicità ne è un esempio.

Ma anche la televisione. La ministra Fornero piange quando dichiara la necessità dei licenziamenti. I giornalisti e le giornaliste sono scatenati: poteva piangere rispetto ad un atto così duro di cui si assumeva la responsabilità? Sì, no. Durezza e pianto sono segni contradditori. Sono quelli sui quali c’è più confusione e più interpretazione. E in più in una donna…

Su altri atteggiamenti femminili non c’è interpretazione a livello di codici. È scontato che una madre abbia l’istinto materno. E se non ha tale istinto? Allora non è normale. Se esagera, è folle. È matta. Una madre che mette al mondo un bambino, una bambina deve, deve assolutamente avere l’istinto materno. Che è come un fantasma che si aggira in un mondo altro, a cui attingere al momento giusto.

Ora penso sia più chiaro il potere del linguaggio. Il linguaggio, con il corteo di immagini, di gesti, di tonalità della voce con cui è accompagnato, impone certi modelli. Se non li si segue, come minimo ci si sente fuori posto. Come passo successivo, ci si sente in colpa. Se si è effettivamente, radicalmente altrove rispetto a tali modelli, si rischia di essere considerate non normali, un po’ folli. È il linguaggio condiviso che impone questi modelli. La sua forza, il suo potere sta proprio nel suo essere condiviso. Sentiamo lo sguardo degli altri su di noi. È lo sguardo degli altri che dà potere ai modelli linguistici sulle donne. È il senso di colpa che avvertiamo se non corrispondiamo a tale modello. Ci sono donne che si sono suicidiate per questo, perché non corrispondevano al sogno americano della donna felice e realizzata. Penso alla poetessa Silvia Plath, negli anni ‘60. Negli Stati Uniti.

 

Non è solo Judith Butler che lavora su questo nei suoi scritti di oggi, ma già il femminismo degli anni ’70 del Novecento aveva ragionato su questo aspetto del potere del linguaggio nei suoi aspetti normativi sui comportamenti delle donne. Voglio riportare una pagina molto bella di Mary Daly in Al di là di Dio Padre.

Vi leggo un passo un po’ lungo che è a pp. 32 – 33. “Uno dei problemi è che persone, soprattutto donne, apparentemente incapaci di raggiungere un alto livello di realizzazione, sono state rese tali da strutture sociali prodotte dai tentativi umani di creare sicurezza. Chi è alienato dalla propria più profonda identità riceve una sorta di sicurezza in cambio dell’accettazione di identità molto limitate e indifferenziate. Ad esempio, la donna che accetta lealmente il ruolo di “casalinga” può, in certa misura, evitare l’esperienza del nulla: ma evita anche una più completa partecipazione nell’essere, che sarebbe la sua unica vera sicurezza e fonte di comunione. Immersa in un ruolo di questo genere, non può conseguire l’apertura alla creatività. Molte donne in gamba si esauriscono nella lotta per evadere da questi limiti e non arrivano perciò a raggiungere i più alti livelli di scoperta intellettuale o di creatività.

Perché si abbia un inizio di apertura bisogna comprendere il fatto che vi è un conflitto esistenziale tra sé e le strutture che hanno fornito questa sicurezza castratoria; e per far questo occorre affrontare l’urto del non essere con il coraggio dell’essere. Il che significa affrontare le angosce senza nome del fato, che si concretizzano nella perdita del lavoro, degli amici, dell’approvazione sociale, della salute, e perfino della vita stessa. E comprendono pure il senso di colpa per il rifiuto di fare ciò che la società esige, un senso di colpa capace di stringervi nella sua morsa anche  molto tempo dopo essere stato riconosciuto come falso. Infine vi è l’angoscia della mancanza di significato della vita che può talvolta soverchiarci, quando i soliti vecchi significati, ruoli e aspettative sono stati sradicati e apertamente rifiutati ed emergiamo in un mondo privo di modelli. (…) Il coraggio dell’essere è la chiave del potere rivelatorio della  rivoluzione femminista”

Il femminismo ha fatto molto perché le donne non si sentissero sole di fronte ai sensi di colpa, alla angoscia dell’abbandonare modelli sicuri. Ha portato a scambio e condivisione questi aspetti esistenziali. In modo da affrontare assieme ad altre, non da sole il rifiuto di fare ciò che la società esige, nominando in un certo modo piuttosto che un altro il nostro vivere.

Però quello che si comprende da questo testo di Mary Daly è che l’affrontare criticamente e politicamente il linguaggio, aprire cioè conflitti nel linguaggio sulle parole, per cambiarle e dire delle donne cose più in rapporto alla nostra esperienza, è atto necessario, ma non sufficiente. Non sufficiente se non c’è una trasformazione personale. Una capacità di affrontare il non essere dell’andare fuori dai ruoli prescritti dalle parole. Affrontare il niente di prescritto che questo comporta.

Noi siamo abituate/i a pensare che uscire dai ruoli che il linguaggio definisce sulle donne sia facile. Che la libertà sia qualcosa di facile. Ma non è così. La libertà implica un rischio. Implica uscire dalle balaustre sicure delle parole che prescrivono i comportamenti. Affrontare il non essere. Il niente. Certo, per la ricerca di una sintonia con il nostro essere, per un movimento più autentico, più profondo, trasformativo. Tuttavia, ripeto, affrontare il niente non è un passo da poco.

In un libro molto interessante per queste questioni che è intitolato Maglia o uncinetto. Sulla inimicizia linguistico-politica tra metafora e metonimia, Luisa Muraro lo metteva molto bene in evidenza alla metà degli anni ’80. Descriveva la difficoltà di far uscire i suoi studenti delle medie della cintura milanese dai luoghi comuni per i quali l’erba è verde e il cielo è azzurro, mentre fuori dalla scuola l’erba era gialla e il cielo opaco. Prati di periferia.

Ma si poneva la questione che uscire dai luoghi comuni era uscire anche da ciò che poteva dare un’anima. Certo un’anima già confezionata, ma comunque un’anima. Un certo modo di essere definito. E che tuttavia ci dava un vestito visibile agli altri. E a noi stessi.

Uscire dai luoghi comuni significava cadere nel non essere, nel niente di definito e mostrabile. Muraro proponeva allora un altro modo di tessere il linguaggio, più fedele all’esperienza personale. Un linguaggio che sapesse raccontare l’esperienza al prezzo di una sofferenza accettata. Come la ragazzina che racconta della madre che operaia non poteva andare ai gabinetti perché i ritmi di fabbrica non glielo permettevano. E consegnava il compito alla prof piangendo, perché è doloroso dire della vita senza dignità della madre nei ritmi di lavoro. Diciamo, la verità richiede coraggio.

È quello che Mary Daly chiama il coraggio di affrontare il non essere per stare in sintonia con il movimento dell’essere.

(non essre, essere,forza d’attrazione di Dio –infanzia creativa)

Il testo che ho appena letto è un testo fortemente politico. Ma se vedete bene anche filosofico esistenziale e linguistico. ((terosessuale-omosessuale, vaginale-clitorideo…troppo sguardo maschile e definitorio.)

(www.associazionelaima.it, 20 novembre 2017)

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