1 Maggio 2024
UltimaVoce

Maschile Plurale: intervista a Stefano Ciccone

di Federica Sozzi

Togliamoci la maschera della virilità e costruiamo insieme un nuovo immaginario maschile


Maschile Plurale è una rete nazionale di uomini che si incontrano in gruppi locali per promuovere una cultura che superi il patriarcato e una società liberata dal maschilismo e dal sessismo.

Incontrare Stefano Ciccone è come entrare in contatto con il cuore di Maschile Plurale. È autore di saggi, libri e articoli riguardanti la ricerca di un nuovo immaginario maschile. Ricerca scrupolosa, in se stesso e fuori da sé, nella storia e nell’esperienza, grazie a un dialogo aperto e attento per cercare nuove strade, nuove parole e nuove identità. Da questo punto di vista Maschile Plurale sembra essere la naturale evoluzione della sua ricerca ventennale.

L’idea di Maschile Plurale nasce nel 2007 a seguito della pubblicazione di un Appello nazionale contro la violenza sulle donne, scritto da alcuni uomini della Rete nel settembre del 2006 e controfirmato in pochi mesi da un migliaio di altri uomini di ogni parte d’Italia.

Dopo diciott’anni da quell’appello, Maschile Plurale ha di recente organizzato un convegno a Roma dal titolo La violenza maschile parla di noi: parliamone.

Chiedo a Stefano cosa sia cambiato in tutti questi anni e cosa sia emerso dal dibattito.

«Oggi c’è una grande attenzione alla violenza maschile contro le donne, ma dobbiamo cambiare il modo di parlarne nei media e nella televisione. Rappresentiamo gli autori della violenza come dei mostri che non ci mettono in discussione: lo straniero, il maniaco. Invece noi di Maschile Plurale facciamo il contrario, proviamo a capire cosa c’è in comune tra me e quell’uomo che ha fatto violenza.

C’è una cultura del possesso, il controllo, la gelosia, l’idea che la donna è preda, l’uomo è cacciatore, l’idea che io devo difendere l’onore, l’idea che io proteggo le donne, che le donne sono deboli, sono sotto la tutela degli uomini. Ognuno di questi piccoli elementi sono dei fili che collegano l’uomo normale, cosiddetto, l’uomo perbene, con quello che invece noi consideriamo il mostro. Questo serve ad alimentare politiche xenofobe, securitarie o altro, ma non ad attuare un cambiamento. Quindi paradossalmente è una specie di allarme rassicurante. Io creo un grande allarme, ma rimuovo il problema, anziché creare un cambiamento».

Le radici della violenza di genere 

Nel suo libro Essere Maschi. Tra potere e libertà Stefano Ciccone rintraccia come radice della violenza di genere la percezione ancestrale di uno scacco del corpo maschile rispetto a quello femminile, di una sua accessorietà del processo generativo. Le donne generano vita, gli uomini no.

«Da quello sconcerto per non poter generare la vita l’uomo sentendosi relegato, secondario, ribalta i valori, costruisce una società che inneggia alla sua libertà dal corpo. 

Le donne diventano donne attraverso le mestruazioni, vivono cicli mensili, rimangono incinte, sperimentano la menopausa. Il dialogo con il loro corpo è costante. Per gli uomini no. Ecco dunque la presunta superiorità degli uomini: il corpo non li condiziona. Per fare un esempio nel libro Essere maschi Ciccone riporta lo stralcio di un dibattito alla Camera del 1950 in cui un deputato sostiene l’impossibilità delle donne di ricoprire il ruolo di giudice per la loro instabilità data dal periodo mestruale. L’accesso delle donne alla magistratura verrà sancito solo nel 1963.

Invece di riconoscersi parziale rispetto alla donna, l’uomo ha scelto di porsi al vertice di un sistema simbolico basato sulla razionalità, l’autocontrollo e l’uso del corpo come strumento di dominio».

Alla scoperta del corpo maschile 

«Astraendosi dal proprio corpo l’uomo perde la propria identità. Il corpo è parte necessaria nello svelare e conoscere la propria identità. E qui c’è il concetto di virilitàcome controllo del proprio corpo, astrazione dal proprio corpo, violenza come miseria della socialità e della sessualità maschile.

L’uomo ha fatto del silenzio del corpo la condizione per costruire una soggettività libera, un esercizio di potere, un’illusoria emancipazione dalla corporeità per dominare la realtà».

È da questo corpo inascoltato e costretto in una virilità che può essere confermata solo dall’esterno che si genera la violenza, le guerre e i nazionalismi. È da questo corpo inascoltato che si genera un’esperienza sessuale impoverita, vissuta come penetrazione e possesso. È da questo corpo inascoltato che l’uomo ha dovuto rinunciare alle emozioni, all’intimità, alla paternità.

Rinunciare al potere dunque significa riappropriarsi della propria libertà, di sentire, di essere e quindi scoprirsi. Il punto di partenza è quindi riconoscere la propria parzialità e invece di competere con le donne cercare nella relazione un nuovo modo di essere.

«La chiave fondamentale per me è riconoscere quanto nel potere, nel privilegio maschile ci sia anche una miseria nella vita degli uomini, nelle relazioni con gli altri uomini, nel dover indossare continuamente una maschera, nel dover continuamente separarsi dalle proprie emozioni».

Maschile Plurale: meno potere più libertà

Ecco perché è così rivoluzionaria l’esperienza di Maschile Plurale, perché rompe quell’impossibilità degli uomini di creare spazi condivisi solo per il piacere di stare insieme senza per forza dover trovare un motivo che occulti un naturale desiderio di intimità: il calcetto, la caccia, la pesca.

«Nel gruppo del calcetto se riveli una sofferenza rischi di essere preso in giro. Nei gruppi di Maschile Plurale non succede, hai la libertà di esporti senza temere di essere giudicato. C’è il riconoscimento reciproco di avere un problema condiviso».

Stefano mi racconta che fin dall’inizio nei gruppi si sono misurati con la fatica di vivere un’intimità tra uomini.

«A noi uomini ci manca la risorsa della vicinanza fisica. Perché mi mette a disagio essere a contatto con un altro uomo? Difficilmente dormiamo insieme, ci accompagniamo in bagno, come fanno le donne. In Italia se due uomini si tengono per mano significa che sono omosessuali. In Medio Oriente non succede, vedi uomini molto mascolini tenersi naturalmente per mano, e questo ti dà l’idea della costruzione tutta culturale di certi modelli.

Mentre tutto quello che riguarda i diritti anche se faticosamente viene cambiato, la sfera delle emozioni e dell’intimità genera ancora molta vergogna».

Il diritto al ridicolo 

Stefano mi racconta di un esperimento fatto nel suo gruppo romano in cui ad occhi chiusi si tennero per mano seduti intorno a un tavolo. L’imbarazzo provato per un’intimità non codificata ha fatto capire a Maschile Plurale quanto ci siano in noi tabù introiettati di cui spesso non siamo consapevoli.

«Quando tu ti misuri con il ridicolo stai toccando un confine di legittimità, stai facendo qualcosa che non è permessa, ti stai femminilizzando. L’omofobia si nutre di misoginia. La caricatura dell’omosessuale ostenta tutti i difetti del femminile, ipersensibile, schifiltoso, emotivo, pettegolo, si muove come un’oca… un uomo che si comporta come una donna è ridicolo? Quindi tu maschio devi evitare di comportarti in un certo modo o ti getterà nel ridicolo. Lo stigma verso la diversità costruisce una disciplina che imprigiona me che sono un maschio eterosessuale.

Solo a cinquant’anni ho deciso di ballare anche se mi sentivo ridicolo. Ogni volta che mi sento in imbarazzo sto imparando qualcosa, ogni volta che mi sento gratificato in realtà sto confermando delle aspettative sociali.

Avere il coraggio di attraversare il ridicolo, l’imbarazzo è qualcosa che mi permette di costruire degli spazi di libertà fuori dai recinti che mi hanno costruito».

Valorizziamo il desiderio di cambiamento degli uomini

Maschile Plurale ha sentito la necessità e la responsabilità di costruire delle parole condivise, che disegnino un nuovo mondo.

«Faccio sempre un esempio molto banale, che è quello dei mammi. Oggi ci sono moltissimi uomini che si prendono cura dei figli e la parola che noi usiamo per definirli è mammi. Non abbiamo una parola socialmente riconosciuta per definire un padre che si prende cura dei figli. Finché non esiste una parola per raccontare qualcosa, quella cosa non esiste fino in fondo, giusto? Perché non la puoi nominare. O meglio, quando lo nomini stai dicendo, quell’uomo è uno che fa un po’ la mamma, è uno che fa delle cose non da vero uomo, no? E quindi non gli dai mai la piena legittimità sociale.

Il problema è che oggi c’è un’urgenza: è molto più visibile l’atteggiamento degli uomini che si lamentano del femminismo, le istanze dei padri divorziati, un vittimismo rancoroso del maschile e molto poco visibile il desiderio di cambiamento del maschile. Il cambiamento c’è, ma non è mai socialmente legittimato. I percorsi di cambiamento del maschio sono molto intimi, individuali. Invece noi cerchiamo il modo di rendere più visibile questo cambiamento che c’è, ma non è ancora visibile». 


(UltimaVoce, 1° maggio 2024)

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