22 Aprile 2024
27esimaora.corriere.it

Maternità, ma i figli sono solo delle madri?

di Angela Condello *


Negli ultimi quattro mesi sull’Economist sono uscite due inchieste ampie e documentate intorno ai costi della maternità sulle carriere femminili: sarà che il trauma pandemico causato dalla chiusura nella propria intimità ha fatto riemergere prepotentemente l’esigenza di tornare su vecchie questioni, fra cui il celebre quesito femminista «a che cosa vogliamo – e possiamo – dire sì, in quanto donne e madri?».

I dati delle inchieste sono fin troppo chiari: a causa della child penalty, le donne (quando va bene) faticano a rientrare al lavoro. Le loro carriere subiscono una vera e propria caduta fatta di rinunce, rallentamenti, retromarce, deviazioni, scelte coatte. Questo accade ben oltre i periodi di maternità obbligatoria e i congedi parentali di vario genere. Anche quando, apparentemente, il lavoro (inteso come incarico formale giuridicamente regolamentato) resta in piedi, l’identità delle professioniste-madri subisce decelerazioni entrando in una crisi permanente fatta di calcoli (molte chiedono il part-time, se ne hanno diritto), (s)bilanciamenti, (dis)investimenti, quiet-quitting (lavorare cioè solo nei modi e tempi indicati dal contratto, senza assumersi nuove o straordinarie responsabilità).

Così la child penalty si identifica con il suo correlato più naturale: la motherhood penalty. Tutto ciò, naturalmente, appesantendo la propria esistenza con sensi di colpa e relativi traumi inflitti a sé stesse, ai coniugi, alla prole. Della serie: «Avete voluto la bicicletta…». Secondo gli studi pubblicati dall’Economist, lo scarto fra le carriere maschili e le carriere femminili è spiegabile, per molti Paesi, con l’accesso differenziato alla formazione e con varie forme di discriminazione di genere sui luoghi lavoro.

Ma nel “mondo ricco” le donne studiano quanto e spesso più degli uomini, e la caduta delle carriere si spiega quasi esclusivamente con i costi economici, di tempo e di lavoro mentale della cura dei figli. Si torna sempre lì: gli asili nido, le scuole, i periodi di malattia, insomma il refrain della bicicletta e della pedalata che ci siamo scelte e volute. I dati sono incontrovertibili e l’unica cosa certa in tutta questa vicenda è che maternità e lavoro viaggiano su binari spesso divergenti: a partire dal bene più scarso di cui disponiamo, il tempo, ogni giro di lancetta va ponderato fra esigenze del mondo (le riunioni delle 18.00) ed esigenze del nido (quell’eroica pulsione a governare la quotidiana Guernica in cui abitiamo fra le 17.00 e la nanna).

Come uscirne? Studi della London School of Economics e di Princeton, che riprendono le analisi di Claudia Goldin, Nobel per l’Economia proprio su questi temi, parlano chiaro: le promozioni e gli avanzamenti in carriera possono tornare a essere una realtà anche dopo i figli solo cambiando completamente l’assetto del lavoro di cura e mettendo all’ordine del giorno il tema sacrosanto della riproduzione sociale, cioè valorizzando al massimo la riproduzione biologica come motore che permette l’avanzamento della società e della storia. Sì, ma come, se l’unico traguardo sembra la quadruplicazione dei nonni e delle nonne (quando ci sono) o la rincorsa disperante a baby-sitter, associazioni, amici della domenica?

Ripartiamo da due temi.

Primo, appunto: la riproduzione sociale. I figli che costano tanto alle madri sono solo delle madri (e dei padri e dei nonni)? La metafora della bicicletta è molto utile proprio perché è sbagliata. Un figlio non è un vezzo o un capriccio, ma è un progetto individuale perché sociale e sociale perché individuale. È un esempio perfetto della celebre corrispondenza fra personale e politico. Se si assume questo punto di vista, allora la genitorialità potrebbe essere valorizzata non solo con premi nascita o bonus nido, che sono sempre contingenti e non sono mai abbastanza, ma come un tassello fondamentale e produttivo nella vita delle donne e delle famiglie intere.

Si potrebbero inoltre valorizzare le forme di socializzazione che trascendano la famiglia tradizionale ampliata ai soli nonni (o agli zii e ai cugini). È il modello relazionale del mondo contadino, sostenibile economicamente e soprattutto psicologicamente a tutti i livelli famigliari.

Secondo tema: ci chiediamo abbastanza da dove vengano tutte le nuove forme di nevrosi della casalinga? Negli anni Sessanta (e anche prima), le forme compulsive e i disordini di cui soffrivano molte donne erano spiegabili con l’imposizione di un modello per cui certe mansioni erano rese obbligatorie e inevitabili e costituivano una norma vera e propria che a volte veniva repressa e si ripresentava sotto forma di fissazioni per il lavoro di cura, ma anche di depressione post-parto e di altri disordini legati alla vita del nido, come un linguaggio violento verso i figli. Oggi i disordini mentali che accompagnano la caduta delle carriere (a volte la causano, altre volte la seguono) sono nuovamente l’esito di un corto circuito: perché paragonare le carriere femminili a quelle maschili? A chi giova questa comparazione? Certamente non alle donne.

Qualche anno fa la Libreria delle donne di Milano ha pubblicato dei testi sul “doppio sì”, un sì alla maternità e un sì al lavoro, per immaginare il lavoro come uno dei nuclei dell’esistenza e non come spazio alternativo alla cura. Il progetto era ribaltare il ruolo materno tradizionale come “ostacolo” da un lato e rappresentazione dell’angelo del focolare dall’altro, per mettere invece al centro una rivendicazione sacrosanta e apparentemente antieconomica: e se le donne volessero stare vicino ai figli? Se fosse invece un gesto di libertà femminile, ancestrale quanto partorire, quello di voler rallentare finché il nido non si è svuotato? Questo sarebbe possibile, naturalmente, solo affermando una gerarchia di valori in cui la relazione madri-figli non venisse ignorata, ma al contrario valorizzata come fondativa dell’esperienza di una persona adulta.

Evidentemente, invece, se il modello dominante è la giornata di otto ore (almeno), con tanto di call, trasferte e accelerazioni a ogni ora, tutto ciò che si discosta da quel modello dominante rientra nella crisi e nella narrazione della caduta che un po’ è presente anche nelle inchieste dell’Economist. Se a questo aggiungiamo il ritorno, potente, del modello di gravidanza, parto e allattamento ultra-naturali, ultra-vincolanti, ebbene, l’ennesimo corto circuito dell’equilibrio neoliberale è innescato. In inglese si dice it takes a village to raise a child: per crescere un bimbo serve un villaggio intero. Tornerei, e in fretta, a guardare alla riproduzione come gesto sociale e politico, liberando le madri dall’ennesimo fardello perfezionista e disumano per cui non si è mai abbastanza, quando si è già tantissimo.


(*) Angela Condello è docente di Filosofia del diritto all’Università degli Studi di Messina


(Corriere della Sera, Rubrica La 27esimaora, 22 aprile 2024)

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