13 Febbraio 2023
Avvenire

Nazira, che adesso è libera di giocare a calcio

di Viviana D’Aloiso


La prima volta che vede un campo da calcio, Nazira, ha 12 anni. È un giorno di sole a Bamiyan – la provincia rurale dell’Afghanistan famosa per il sito archeologico in cui i taleban nel 2001 hanno distrutto le statue del Buddha – e mamma e papà sono fuori. Suo fratello ha il compito di tenerla con sé, durante la partita. E di là dalla rete, lontano dal gioco, c’è una bambina come lei che tira il pallone contro il muro. «Non ci ho pensato un attimo – racconta con gli occhi ancora pieni di quella prima passione – sono scesa e mi sono messa a giocare con lei». Nazira, però, il pallone ce l’ha scritto nelle gambe e nel destino. E l’allenatore del fratello se ne accorge subito: «Perché non vieni ad allenarti con noi qualche volta?» le chiede a fine partita. Il giorno dopo eccola lì. Quello dopo ancora. «Andavo a dormire e pensavo al campo, mi svegliavo per andare a scuola e volevo solo andare a giocare a pallone». Nazira, che è già una portiera promettente, chiede ai suoi genitori di poter entrare ufficialmente nella squadra, ma la risposta è no: «Come facciamo piccola mia?» le ripete il padre. La famiglia è di etnia hazara, i pashtun li vedono di cattivo occhio, una femmina in pantaloncini sul campo da calcio è una provocazione che potrebbe costare caro a tutti in città. Nazira piange un giorno e una notte, poi si alza e decide che a calcio vuol giocare lo stesso. Di nascosto.

La sua storia di coraggio e di lotta per la libertà comincia così. Senza diritti da rivendicare, se non quello di poter giocare al pallone. Nazira la racconta dalla sede della cooperativa sociale Il Melograno di Milano, che l’accoglie in un progetto di autonomia da settembre scorso, coi lunghi capelli ondulati sciolti sulle spalle e la tuta del Milan da cui non si stacca mai. Perché tra quella bambina di Bamiyan e la portiera della primavera rossonera che è diventata oggi ci sono sei anni di incredibile odissea. In cui Nazira è diventata una campionessa nel suo Paese – tanto da entrare nella nazionale e trasferirsi a vivere a Kabul – e poi una fuorilegge, una ricercata, una profuga, infine una miracolata. «I primi tempi mi coprivo il volto con un foulard per andare a giocare – racconta mentre mostra le sue foto in mezzo ai ragazzi di Bamiyan –. Nessuno mi notava. Saltavo le ore di matematica, la matematica non mi è mai piaciuta. E andavo al campo». Tutto fila liscio finché la squadra vince un torneo e Nazira viene intervistata da un’emittente locale. Sull’onda dell’entusiasmo la ragazza tira giù il foulard, parla liberamente. E i suoi genitori scoprono tutto. Nel quartiere si comincia a parlar male di lei, ma nel frattempo libera di poter giocare Nazira inizia a praticare anche altri sport: corre le maratone (vincendole tutte), scia perfino (arrivando prima alle gare nazionali).

Il suo talento è cristallino e da Kabul presto arriva una telefonata: la nazionale di calcio femminile Juniores vuole farle un provino. Qualche mese dopo Nazira è nella capitale, dove inizia una nuova vita: abita negli appartamenti all’interno dell’università con altre ragazze come lei, si allena tutti i giorni, affronta le altre nazionali, diventa famosa. I taleban intanto, però, si stanno riprendendo il Paese e una sera d’agosto (siamo nel 2021) l’allenatore le chiama: «Dobbiamo nasconderci, i guerriglieri sono alle porte della città». Le atlete prendono in fretta e furia le poche cose che entrano nel borsone della squadra: saranno i primi bersagli dei taleban, simbolo di quella libertà che hanno già in mente di cancellare. Nazira, insieme a due compagne, si nasconde proprio a casa dell’allenatore e da lì cominciano i drammatici tentativi di raggiungere l’aeroporto che abbiamo visto in televisione: provano a raggiungerlo una, due, tre volte. Al quarto viaggio pagano un taleban, che promette loro di farli entrare nello scalo ma poi li tradisce, consegnandoli a un manipolo di uomini armati. Che iniziano a sparare. «Io non avevo mai visto fucili in vita mia, non avevo mai visto morire nessuno». Le ragazze con lei scappano fuori dall’auto, Nazira (che non le vedrà più) sviene, l’allenatore fa marcia indietro rocambolescamente e corre via portandola in salvo. Una settimana dopo, l’uomo e Nazira riescono a tornare all’aeroporto: lei ha un bandana rosso al polso, le dicono che se riuscirà a farlo vedere a un soldato italiano di là dalla rete avrà speranze d’essere portata dentro. E così va a finire: eccola entrare, eccola passare sotto la tutela delle nostre autorità e imbarcarsi su un volo per l’Italia.

È la salvezza del corpo, ma il cuore di Nazira è spezzato: la sua famiglia intanto è dovuta scappare da Bamiyan, perché i taleban hanno anche loro sulla lista nera, soprattutto ora che Nazira è ufficialmente in fuga. Il fratello e la sorella maggiore sono riusciti a rifugiarsi in Pakistan, ma i genitori sono nascosti nelle campagne afghane. La giovane calciatrice, diciassette anni appena compiuti, finisce in un centro di accoglienza per minori a Piacenza. Poi viene trasferita a Ferrara. Sono mesi bui: Nazira non parla l’italiano, non ha amici o parenti con lei, non ha mai desiderato lasciare il suo Paese.

È sola, disperata, incompresa. Finché il calcio, di nuovo, le salva la vita. Un giorno dalla finestra della struttura in cui vive sente urla e fischi: si affaccia e vede un gruppo di ragazzi giocare a pallone. Da una parte c’è la squadra degli “stranieri”, gli ospiti del centro dove vive anche lei. Dall’altra gli italiani, quelli che vivono nel quartiere. Nazira scende le scale di corsa e arriva sul campo: «Posso giocare?». Nel gruppo dei minori soli ci sono alcuni afghani: la guardano male, le dicono che no, non può giocare, che non si addice a una donna. Al gruppo degli italiani, invece, manca proprio un portiere e uno di loro si fa avanti: «Vieni con noi». A Nazira si riempie il cuore, come non le succedeva da mesi ormai. E la partita finisce senza reti, per gli italiani. Nelle settimane successive la giovane scende al campo tutti i giorni: le squadre adesso se la litigano. Finché il passaparola arriva agli adulti e i responsabili del centro capiscono che attraverso il calcio, Nazira, potrebbe trovare la sua strada e il suo futuro fuori dal circuito della prima accoglienza.

«Il resto lo ha fatto il Melograno, con i suoi operatori e mediatori che per me sono diventati una famiglia – racconta Nazira –. E poi il primo provino al Milan, che mi ha permesso di allenarmi con le ragazze della primavera». Nazira, che ora ha compiuto diciott’anni, è entrata in un progetto di autonomia e vive da sola in un piccolo appartamento alle porte di Milano. Studia italiano e si allena tutti i giorni: «Sogno di entrare in prima squadra naturalmente – ammette – e di diventare famosa, di vivere col calcio. Ma più di tutto sogno di riuscire a riabbracciare la mia famiglia, per cui ho chiesto ufficialmente il ricongiungimento». Una missione quasi impossibile, visto che mamma e papà sono riusciti a lasciare il Paese nel frattempo, ma vivono da clandestini in Iran. Lei non smette di sperare: «Non l’ho mai fatto in questi anni». E alle donne, «tutte le donne, non solo quelle afghane, voglio dare un messaggio che magari può sembrare stupido: non rinunciate a fare sport, mai, nemmeno quando qualcuno vi dice che è una cosa da uomini perché gli uomini riescono meglio. Io sono qui, oggi, per il calcio. La mia passione». Nazira, che adesso è libera di giocare a calcio.


(Avvenire.it, 13 febbraio 2023)

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