14 Maggio 2021
Internazionale

Nel quartiere di Sheikh Jarrah, dove la realtà produce odio

di Amira Hass, giornalista di Haaretz


È domenica 9 maggio, siamo quasi al termine di una conversazione con Abd al Fattah Iskafi nella sua casa a Sheikh Jarrah, quando arriva la notizia che la corte suprema israeliana ha rinviato l’udienza prevista per il giorno dopo sulla sorte di questo quartiere palestinese di Gerusalemme Est. Il tribunale avrebbe dovuto esaminare l’appello contro un ordine di espulsione emesso da una corte minore nei confronti degli Iskafi e di altre famiglie.

Non si può certo dire che Iskafi abbia tratto un sospiro di sollievo quando è venuto a sapere che la seduta si terrà entro trenta giorni. «Mi sento come se fossi stato condannato a morte, ma l’esecuzione continua a essere rinviata di poco. Ora è slittata di nuovo», dice a Haaretz. Comunque, ha respirato più liberamente.

Iskafi, 71 anni, ne aveva sei quando la sua famiglia e quella di suo zio si trasferirono dalla loro casa temporanea nella città vecchia al quartiere fuori le mura. Da allora, da 65 anni, vive nella sua casa di Sheikh Jarrah. «È stato come trasferirci nel giardino dell’Eden», ricorda. «C’erano tanti ulivi qui, c’era spazio. La casa era piccola ma era una casa. Nella città vecchia vivevamo in un pozzo, una cisterna usata in passato per raccogliere l’acqua. Non aveva il bagno, l’acqua corrente, né l’elettricità». Prima della guerra del 1948, la famiglia viveva in una casa di proprietà a Baqaa, un quartiere palestinese nella parte meridionale di Gerusalemme. Si trasferì nella città vecchia a causa dei combattimenti, ma quando la guerra finì, a loro, come a tutti gli altri rifugiati, fu vietato di tornare a casa.

«Qualcuno vide i miei genitori e noi figli senza nulla, solo i vestiti addosso, che cercavamo un posto dove stare, e ci lasciarono vivere in una cisterna», dice. «Portavamo l’acqua con i secchi dalla moschea Al Aqsa per lavarci e cucinare. E usavamo un bagno pubblico vicino alla porta dei Leoni».

Iskafi non sa dove si trovi la casa a Baqaa. I suoi genitori sono morti subito dopo che Israele occupò Gerusalemme Est, nel 1967, e non ebbero l’opportunità, o non vollero, vederla abitata dagli ebrei che ci vivevano al posto loro. «A cosa sarebbe servito sapere dov’era la casa, e andare a vederla?», chiede. «Ci è stata tolta, e non possiamo parlarne».

Il suo medico gli ha imposto di non digiunare durante il Ramadan per motivi di salute. È troppo nervoso per mangiare, ma fuma, anche se il dottore gli ha ordinato di non farlo. Inoltre, dorme poco a causa dello stress.

Iskafi aveva saputo da suo padre che «in cambio della rinuncia al nostro status di rifugiati, con i soldi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa) il ministero giordano delle politiche abitative aveva costruito le case di Sheikh Jarrah per noi e per le altre famiglie rifugiate. Ci fu promesso che dopo tre anni sarebbero diventate di nostra proprietà». Tra le famiglie di rifugiati che arrivarono in base a questo stesso accordo e che oggi vivono nel quartiere, racconta, ce ne sono altre quattro originarie di Gerusalemme: i Dajani, gli Husseini, i Daoudi e i Jaouni. Prima del 1948 le loro case erano vicine al municipio di Gerusalemme, sulla strada di Jaffa.

Già negli anni settanta le famiglie capirono che la loro situazione era cambiata. «Improvvisamente ci dissero che la terra era proprietà di ebrei», racconta Iskafi. «All’epoca non c’erano avvocati arabi che avessero familiarità con il diritto israeliano, perciò le famiglie presero un avvocato ebreo perché ci avevano detto che era bravo. Ma questo, senza dirci niente e senza il nostro consenso, accettò un accordo con due fondi fiduciari ebraici (che verso la fine dell’ottocento erano stati dichiarati proprietari della terra), come se noi fossimo degli affittuari e loro i padroni di casa. Solo quando nel 2008 ci hanno chiesto di lasciare le case e hanno espulso la mia vicina Fawzia al Kurd, allora ho cominciato a capire che il pericolo di espropriazione era reale. Da tredici anni ormai viviamo sotto questa minaccia».

Nel 1956 in casa vivevano dieci persone. Poi i genitori di Iskafi sono morti, suo fratello maggiore e le sue sorelle si sono trasferiti ed è rimasto solo lui, di mestiere calzolaio, come suo padre e suo fratello. Oggi ci vivono quattordici persone, tre nuclei familiari: Iskafi e sua moglie Salwa; il loro figlio più giovane, non sposato; e due figli sposati con le rispettive famiglie. «Nel giardino fuori casa ho piantato alberi di ulivo, clementine, limoni e cachi. A ogni albero è stato dato il nome di uno dei nostri sei figli», spiega. «Adesso abbiamo cominciato a dare agli alberi i nomi dei nostri nipoti. Loro vivono nella paura costante che possano sfrattarci in qualsiasi momento. A volte rifiutano di andare a scuola per timore di non poter più rientrare a casa al ritorno. A volte, come adesso, restano a dormire dalla nonna materna per sfuggire a questa tensione».

Iskafi calcola che dal 2009 è comparso in tribunale tra le quindici e le venti volte. Dopo ogni udienza, qualcosa è morto nel suo cuore.

«Le famiglie sono state distrutte psicologicamente», racconta. È preoccupato per i suoi nipoti. «Quando sanno che ci sono dei piani per cacciarli di casa, diventano naturalmente carichi di odio, arrivano a pensare che tutti gli ebrei sono ladri, che sono il nemico», spiega. «Solo grazie agli attivisti ebrei che vengono qui ogni settimana a contestare le espulsioni capiscono che non tutti gli ebrei sono così. Noi non siamo contro il popolo ebraico, io glielo spiego. Noi non abbiamo educato all’odio i nostri figli e i nostri nipoti. È la realtà che produce odio».

Nelle due case da un lato e dall’altro di quella di Iskafi gli abitanti palestinesi sono stati espulsi ormai da tempo. Ora ci vivono delle famiglie ebree ortodosse, protette da due posti di guardia. Alla domanda se qualcuno dei suoi vicini ebrei abbia mai espresso un interesse amichevole per lui o la sua famiglia, Iskafi ha bisogno di qualche istante per rispondere.

«Forse uno», e poi aggiunge: «Gli inquilini ebrei pregano continuamente. Le famiglie vengono per un anno o due, magari tre anni, cantano Am Yisrael chai (Il popolo di Israele vive), ricevono tutte le cose di cui hanno bisogno, sono acclamati come pionieri e poi se ne vanno».


(Internazionale, 14 maggio 2021)

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