24 Marzo 2022
HuffPost

“Non si può più dire niente”. Anche il New York Times si è redento dalla cancel culture

di Adalgisa Marrocco


Ora è ufficiale: negli Stati Uniti esiste un problema di libertà d’espressione. Lo sancisce nientemeno che il New York Times, il giornale più importante del Paese e fra i maggiori al mondo. Finalmente, verrebbe da dire, se non ci fosse un dettaglio: è stato proprio il quotidiano newyorkese, punto di riferimento della sinistra democratica e liberal, uno dei primi a esacerbare le pulsioni perbeniste, e successivamente a negare che il problema esistesse. Nel 2020, addirittura, in redazione qualcuno si dimise denunciando che lì, tra le belle scrivanie di Manhattan, “non si poteva più dire niente”. 
“Nonostante la tolleranza e la ragione della società moderna, gli americani stanno perdendo il controllo di un diritto fondamentale come cittadini di un Paese libero: quello di poter dire ciò che pensano e di esprimere le proprie opinioni in pubblico senza paura di essere infamati o isolati”, dice ora il Times in un editoriale di redazione, esprimendo dunque una posizione ufficialmente condivisa. “Silenziamento sociale” e “de-pluralizzazione” dell’opinione pubblica: sono queste per i redattori del Nyt le colpe da assegnare indiscriminatamente, sia alla destra che alla sinistra.

Insomma: una conversione sulla via di Damasco, o meglio sul viale della redenzione dalla cancel culture. Perché non bisogna dimenticare che a parlare è lo stesso giornale che nel 2020 visse le dimissioni di Bari Weiss, editorialista che se ne andò sbattendo la porta in polemica con il “conformismo” dei suoi datori di lavoro e che scrisse una lettera per denunciare le pressioni esercitate dai social media sulla linea editoriale. “Twitter non è nella gerenza del New York Times, ma è lui che comanda”, furono le parole di Weiss.

Il caso della giornalista non fu certamente un unicum. Prima di lei, infatti, avevano fatto scalpore le dimissioni di James Bennet, il responsabile degli editoriali del Times, colpevole di aver pubblicato l’articolo del senatore repubblicano Tom Cotton che invocava l’intervento dell’esercito per arginare i disordini provocati da alcune frange del movimento Black Lives Matter.

Eppure soltanto oggi il giornale si sveglia e scopre che “la vecchia lezione ‘pensa prima di parlare’ ha lasciato il posto a ‘parla a tuo rischio e pericolo’”, anche grazie ai risultati di un sondaggio condotto in collaborazione con il Siena College Research Institute (SCRI). Ben l’84% degli intervistati afferma che preferisce non esprimere la propria opinione in pubblico per timore di subire ripercussioni negative o ritorsioni.

Un risultato che desta il Times da anni di torpore e lo porta finanche ad affermare che “la solida difesa della libertà di parola era un tempo un ideale progressista”, mentre oggi molti progressisti sono “diventati intolleranti nei confronti delle persone che non sono d’accordo con loro”, assumendo atteggiamenti di ipocrisia e censura che per lungo tempo sono stati tipici della destra e aborriti dalla sinistra. Eureka tardiva, quindi.

Eppure sono già passati due anni da quando Bari Weiss firmava l’ormai celebre lettera aperta contro la cancel culture promossa da 150 scrittori, personalità e intellettuali pubblicata su Harper’s Magazine. Tra i firmatari nomi del calibro di Margaret Atwood, Ian Baruma, Noam Chomsky, Salman Rushdie e J.K. Rowling: compatti nel denunciare l’intolleranza culturale e nel difendere la libertà di pensiero e parola. “Il libero scambio di informazioni e idee, linfa vitale di una società liberale, sta diventando sempre più limitato”, si leggeva nella missiva di cui la giornalista aveva voluto farsi portavoce.

Licenziamenti, lettere, lamentele. Insomma, che qualcosa non funzionasse con la libertà d’espressione era chiaro da tempo, eppure “ben svegliato, Times”: soltanto oggi scopre che l’America ha un problema e lo mette in prima pagina.


(huffingtonpost.it, 24 marzo 2022)

Print Friendly, PDF & Email