6 Marzo 2024
Altreconomia

Olga Karatch, l’attivista per la pace che vuole sottrarre l’esercito a Lukashenko

di Alessio Giordano


Olga Karatch è una giornalista e attivista per la pace e per i diritti civili bielorussa. Il 3 marzo, a Bolzano, ha ricevuto il Premio internazionale “Alexander Langer” per il suo lavoro contro la guerra, a favore dei diritti umani e per una svolta democratica in Bielorussia. A causa del suo impegno, il regime di Aljaksandr Lukashenko l’ha accusata di terrorismo, crimine per il quale nel suo Paese è prevista la pena di morte. Oggi vive a Vilnius, in Lituania, dove le è stato negato l’asilo politico perché considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale”.

Karatch, per quale motivo il governo del suo Paese l’ha accusata di essere una terrorista?

Durante le proteste del 2020, scoppiate dopo le elezioni presidenziali fraudolente, ho contribuito a organizzare una linea telefonica per le vittime della repressione di Lukashenko, avviando una raccolta fondi per coprire le loro spese legali. Nel 2021 il governo ha interrotto il nostro lavoro, arrestando alcuni di noi e costringendo altri alla fuga all’estero. Il Kgb ha quindi inserito il mio nome nella lista dei terroristi. Questa è la realtà dei fatti. Ufficialmente il regime mi ha accusata però di aver tentato un attacco kamikaze nei pressi di un punto di comunicazione russo su ordine di Angela Merkel.

Il suo impegno con “Our house” è iniziato nel 2005. In quali ambiti si sviluppa l’attività dell’organizzazione?

“Our house” si è dedicata inizialmente a supportare le donne, che in Bielorussia sono vittime di abusi di diversa natura. Con la campagna “252+1”, ad esempio, abbiamo fatto pressione affinché venisse consentito alle donne di accedere ad alcune professioni a loro proibite, spesso lavori meglio retribuiti o legati a stereotipi di genere. Fino a qualche tempo fa la lista comprendeva 252 professioni. Oggi, grazie alla nostra campagna, sono 186. Un focus particolare lo dedichiamo poi ai minori. “Children 328”, per esempio, mira alla liberazione dei minori incarcerati. In Bielorussia, infatti, i ragazzi dai quattordici anni in su possono essere condannati a dieci anni di carcere per il consumo di sostanze stupefacenti. Le conseguenze per la salute fisica e mentale per un giovane possono essere tremende, date le condizioni in cui versano gli istituti di pena bielorussi: non c’è la possibilità di frequentare la scuola, l’assistenza sanitaria è carente e sono frequenti violenze e torture.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, due anni fa, avete dato vita alla campagna “No means no”. Di che cosa si tratta?

“No means no” è una campagna per promuovere e difendere il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, 43mila bielorussi hanno ricevuto la cartolina di precetto dell’esercito. Abbiamo risposto diffondendo materiale informativo per esortare gli uomini a non rispondere alla chiamata e a fuggire. Il nostro obiettivo è l’istituzione di corridoi umanitari per tutti coloro che rifiutano di combattere. Noi garantiamo assistenza legale a chi si rifugia in Lituania. Siamo convinte che l’obiezione di coscienza contribuirebbe a risolvere ogni conflitto sul Pianeta. Si potrebbero combattere le guerre senza soldati?

Quanti sono gli obiettori di coscienza nel Paese e quali conseguenze devono affrontare?

In Bielorussia, dove non esistono tribunali indipendenti, gli obiettori di coscienza vanno incontro a una condanna da sette a dieci anni di carcere. Nel 2023, fonti governative hanno dichiarato che i ricercati per non aver risposto alla chiamata alle armi erano cinquemila. Se chi decide di non arruolarsi – o diserta – fugge in Russia, rischia la deportazione. Lo stesso accade in Lituania, dove si aggiunge la sospensione di cinque anni per un visto di ingresso nei Paesi dell’Unione europea.

Dal punto di vista sociale invece quali effetti produce questa scelta?

Chi rifiuta di imbracciare le armi fa i conti con un forte stigma all’interno di una società, quella bielorussa, in cui si è riaffermato un unico modello di uomo, ossia colui che combatte. La donna, invece, ha il solo compito di ispirarlo e sostenerlo nel compimento del suo dovere. Gli obiettori di coscienza, così come i reduci che non vogliono o non possono più combattere, sono considerati cittadini di livello inferiore.

Nei giorni scorsi il presidente francese Emmanuel Macron ha paventato la possibilità di un intervento delle truppe Nato in Ucraina. Vladimir Putin ha risposto ventilando la minaccia delle armi nucleari. In Europa e non solo si assiste a una sorta di corsa alle armi. Come giudica questa escalation?

Oltre al fatto che, ovviamente, senza veri percorsi di pace l’escalation bellica continuerà con risultati potenzialmente catastrofici per l’umanità, da quello che osservo nella regione e nei Paesi limitrofi – Polonia e Paesi baltici – la militarizzazione ha effetti sulla vita quotidiana di adulti e bambini. “Our house” accende i riflettori sulla militarizzazione dei minori in atto in Bielorussia, dove, nel 2022, 18mila bambini dai sei anni in su hanno partecipato a 480 campi militari estivi sotto l’egida del ministero della Difesa. Di questi, duemila giovani sono stati poi selezionati per un vero e proprio addestramento e oggi sono in grado di sparare, guidare mezzi militari e gestire parte della logistica militare. In molti casi i bambini coinvolti provengono da famiglie marginalizzate, che vedono in questa iniziativa la possibilità di migliorare la propria condizione sociale. Insomma, stiamo assistendo a una escalation che agisce su più livelli e che non sembra facilmente arrestabile.

In Lituania, dove vive, le è stato negato l’asilo politico. Quanto si fa sentire la pressione del governo bielorusso anche al di fuori dai suoi confini?

Enormemente. A me è stato negato l’asilo e ora ho un permesso di soggiorno per motivi umanitari che scadrà tra un anno. Ero arrivata in Lituania, un Paese dell’Ue, con molte speranze, ma ho capito presto di essermi illusa. Anche qui siamo vittime delle operazioni di discredito da parte del regime di Lukashenko. Per essere considerati “minaccia per la sicurezza nazionale” dal Dipartimento di sicurezza nazionale lituano – come nel mio caso – basta solo un sospetto. Nel Paese poi sta prendendo piede un sentimento di avversione nei confronti di chi scappa dalla Bielorussia. Alcuni obiettori di coscienza che hanno presentato domanda di asilo sono stati rinchiusi in strutture simili a prigioni e sono sottoposti a maltrattamenti basati unicamente sulla loro pregressa esperienza militare. Il governo lituano, inoltre, cerca di limitare proprio le nostre attività in sostegno ai rifugiati bielorussi.

Quali richieste vorrebbe avanzare al Parlamento europeo, in vista delle elezioni del prossimo giugno?

Nel Parlamento europeo abbiamo bisogno di persone che lavorino per la pace e che creino spazio per la forza della società civile e dei costruttori di pace, finora esclusi da qualsiasi dibattito. Se davvero si vuole fermare la guerra bisogna puntare sulla diplomazia, creando strumenti alternativi alle armi. Il sostegno agli obiettori di coscienza, a cui finora l’Ue non ha garantito alcun supporto, può essere una misura importante.

Domenica 3 marzo le è stato consegnato il Premio internazionale “Alexander Langer” 2023, dedicato al politico ed eurodeputato altoatesino scomparso nel 1995 e assegnato ogni anno a personalità o organizzazioni che si sono distinte per la loro attività a favore della pace, dei diritti umani e civili. Quale aspetto dell’eredità di Langer la guida nel suo impegno per la pace?

«Meglio un anno di trattative che un giorno di guerra». Questa frase di Alexander Langer deve essere il nostro faro. Per quanto sia complicato e faticoso, in una società in cui le opinioni sono polarizzate e le persone non si ascoltano, dobbiamo continuare a credere nella comunicazione non violenta e nella possibilità di costruire ponti. La via per la pace passa anche dall’affermazione di questi principi.


(Altreconomia.it, 6 marzo 2024)

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