di Maria Emerson
Davide Paitone ha ucciso il figlio Daniele ferendo gravemente anche sua madre. Un uomo violento, già detenuto ai domiciliari. In più incocainato e e bevitore. Eppure in nome della “parità genitoriale” gli è stato concesso di tenere con sé il bambino per Capodanno, decisione che si è risolta in una tragedia. Ma il diritto del padre, anche se notoriamente aggressivo, è la cosa che conta di più
Davide Paitone, operaio quarantenne di Morazzone (Varese), è un uomo violento.
Già accusato di maltrattamenti in famiglia, e inoltre incocainato e bevitore, aveva anche accoltellato un collega dopo una lite e per questo si trovava agli arresti domiciliari. Nonostante il suo temperamento violento aveva ottenuto di tenere con sé per Capodanno il figlio Daniele di 7 anni. Concessione equivalente a una condanna a morte per il bambino, a cui il padre ha squarciato la gola. Dopo averne nascosto il corpo in un armadio l’uomo ha raggiunto la madre del bambino, da cui si stava separando, tentando di uccidere anche lei, fortunatamente senza riuscirci.
Come è possibile che a un uomo così pericoloso sia stato concesso di tenere con sé il bambino? Si tratta in realtà di una cosa piuttosto “normale”.
Da due decenni a questa parte dagli Stati Uniti si sono diffuse le teorie che – con nomi e strumenti variabili dalla PAS fino ai “disturbi della relazione” o “rischi per lo sviluppo” – impongono di fatto l’affido condiviso e il diritto di visita e di accesso al minore anche ai padri violenti nei casi di separazione o di divorzio.
Nell’ambito del diritto minorile e civile sulla custodia dei figli dopo la separazione si sono sviluppate teorie negative collegate ai concerti di “alienazione genitoriale” o altri “disturbi della relazione o dello sviluppo” che indicano come pericoloso per il minore un eventuale affido alla madre protettiva anche nei casi di violenza del padre, ma anche teorie positive ispirate alla “parità” e alla “neutralità della custodia rispetto al genere”.
Anno dopo anno la cosiddetta “preferenza materna” è sempre più frequentemente abbandonata anche in Europa, in nome di un concetto “progressista” di “parità”, di “neutralità” o di “condivisione”, con la quasi impossibilità per le madri di menzionare la violenza per non essere ritenute “ostacolanti, simbiotiche, adesive, alienanti”.
I padri violenti devono avere libero accesso ai figli quindi, e allo stesso tempo condividere “paritariamente” la responsabilità con la madre anche nei casi di grave violenza domestica.
Molto spesso poi accade che i padri sia nella fase della separazione sia in seguito siano violenti anche con i figli, ma evidentemente la questione non è abbastanza importante per i tribunali, gli operatori, le istituzioni e l’accademia, dove le donne e gli uomini per bene che operano sono sempre tanti, ma le mode del momento portano a pensare che la violenza maschile sulle donne sia un tema superato, di cui eventualmente la stessa donna è in qualche modo colpevole.
Tra le proposte correnti c’è anche quella di segnalare ai servizi sociali tutte le madri che denunciano violenza domestica, evidentemente per mettere anche e soprattutto loro sotto la lente dell’indagine.
Il terribile figlicidio di Varese oggi non può stupire. In Italia, negli Stati Uniti e in ogni Paese del mondo la strage non si ferma, contro la vita, l’energia e la forza procreativa delle donne.
Non chiediamo più alle istituzioni di fare qualcosa, ma soltanto di parlare chiaro.
Informate le donne. Dite loro che se hanno avuto figli da uomini violenti, di questi uomini potrebbero non liberarsi mai. Che lo Stato potrebbe continuare a garantire il loro diritto di pater familias fino alla fine dei loro giorni, a rischio della loro vita e di quella dei figli.
(Feministpost, 2 gennaio 2022)