9 Settembre 2022
Noi Donne

Per Giulia Galiotto: un ricordo e una denuncia

di Maria Dell’Anno


Ciao Giulia*. Oggi ho saputo che il tuo assassino è stato liberato. Tu forse lo sai già. O forse no, non so se da morta puoi ancora sapere qualcosa di quello che capita in questo assurdo mondo. 
Assurdo. Perché è assurdo pensare che tu non ci sei più, non esisti più su questa Terra, e che invece lui, che ti ha uccisa, che ha deciso di ucciderti, che ha deciso di prenderti a sassate e di gettarti nel fiume provando a simulare il tuo suicidio, è libero di vivere la sua vita. Quella vita che tu non hai più. 
Ecco, il mio cervello ha davvero difficoltà a concepire questi due dati di fatto: tu non esisti più e il tuo assassino è libero. 
13 anni. Dovevano essere 19. Una sentenza dello Stato italiano lo aveva condannato a 19 anni di carcere. 19 anni per averti tolto la vita. Per aver deciso di toglierti la vita. Per aver deciso di togliere la vita a sua moglie, che qualche anno prima aveva promesso di amare. Ne ha scontati solo 13. 13 anni di privazione della libertà per aver deciso di toglierti per sempre la tua di libertà. Dopo 13 anni è libero di tornare a casa e perfino di riprendere lo stesso lavoro che faceva prima, come se avesse fatto una lunga vacanza in America. Ti ha uccisa perché ha ritenuto fosse più conveniente ucciderti che separarsi. Forse, dopotutto, lo Stato non gli sta dicendo che aveva torto. 
Ho conosciuto i tuoi genitori, sai Giulia? Ho il privilegio di chiamarli amici. Ho il privilegio di condividere con tua mamma riflessioni su di te e sui diritti delle le donne, delle bambine, perché il futuro del mondo è loro. Li ho conosciuti perché volevo raccontarti – te e altre donne che come te non hanno più la loro vita perché uccise da un uomo che aveva detto di amarle – e attraverso loro ho conosciuto te. 
Lo Stato che ha condannato tuo marito a 19 anni per punire la tua morte e che poi l’ha liberato dopo 13 non ha detto nulla ai tuoi genitori. Non li ha informati che l’assassino della loro figlia ha pagato il suo debito con la giustizia, che è libero di tornare a casa, e che magari se lo possono ritrovare al supermercato di fronte agli yogurt. No, lo Stato non si è curato di loro. Ha semplicemente chiuso un fascicolo di carta che portava il nome di tuo marito: liberato e affidato ai servizi sociali. 
Servizi sociali. La nostra bellissima Costituzione pone come finalità della pena la rieducazione e il reinserimento sociale; in quest’ottica l’ergastolo è palesemente incostituzionale; per alcuni è inumana anche la stessa pena del carcere, e forse se il mondo non si autodistruggerà a breve farà in tempo a vedere anche l’abolizione di questa sanzione in parte dell’Occidente. 
Ma dell’ergastolo a cui sono condannati i genitori e i figli di chi viene uccisa lo Stato non pensa? Perché quello, sì, è un ergastolo senza alcuna possibilità di libertà condizionata. 
Tua madre racconta di te nelle scuole continuando a fare il suo lavoro di maestra. Tuo padre l’accompagna parlando di te con ogni persona che incontra. Perché tutti dovrebbero parlarne, sempre, mi ha detto una volta. Tua sorella, la tua metà, è andata a un concerto contro la violenza sulle donne portando un palloncino a forma di fiore con scritto “Giulia sempre con noi”. 
Amavi la musica, lo so, amavi la vita, lo so, guardavi con fiducia al futuro, lo so. So talmente tanto di te che in certi momenti ho davvero la sensazione di averti conosciuta, anche se so che purtroppo non è vero, che esisti solo nei ricordi che ho ascoltato e nella mia immaginazione di donna e di scrittrice. Sei un fantasma. Un fantasma di cui sento forte la presenza ogni volta che entro nella casa dei tuoi genitori. Un fantasma che annusa il profumo dei fiori nel suo giardino, un fantasma che mi sembra stia per affacciarsi da un momento all’altro alla porta della cucina per dire che è ora di apparecchiare la tavola. Un fantasma che porto con me e che racconto ad ogni presentazione del libro in cui ti ho ridato voce. Anche adesso, mentre scrivo, non riesco a trattenere le lacrime al pensiero che in realtà non esisti più. 
Tu no. Ma lui sì. Ecco, se è così difficile per me concepire questi due dati di fatto – tu sei morta e lui è libero – davvero non riesco a capire come possano farlo i tuoi genitori. Non ci riesco. Non che l’ergastolo riporti la persona uccisa in vita, però, non so, psicologicamente pensare che il tuo assassino non fosse più libero di vivere la sua vita mi dava una qualche forma di rassicurazione sull’equilibrio della bilancia della giustizia. Così mi pare che i piatti siano stati abbattuti da un tornado. Perché non si tratta solo della pena in sé: la pena è solo un modo in cui lo Stato esprime il disvalore che attribuisce a quell’azione. E che disvalore attribuisce lo Stato italiano alla tua uccisione in quanto donna? Poco. Evidentemente la vita di noi donne non vale molto. 
Denaro. Questa è l’unica cosa che lo Stato riserva alle vittime, ai parenti delle vittime: un risarcimento in denaro. Teorico, perché in pratica i grandi risarcimenti quantificati nelle sentenze rimangono per lo più virtuali. Ma anche se pagati, ci sarà mai una cifra che possa risarcire una vita? Ci sarà mai una cifra che possa compensare la sedia vuota a un tavolo con quattro lati? Francamente no. 
Mediazione penale. L’avvocata di tuo marito ha proposto all’avvocata dei tuoi genitori una mediazione per giungere ad un risarcimento che lui possa sventolare di fronte allo Stato per dimostrare di essersi riabilitato compensando anche le vittime del suo reato. Ma come si fa a mediare con chi si è arrogato il potere di decidere della vita di un’altra persona solo perché quella vita intralciava un po’ i suoi piani? Mediare significa rinunciare ciascuno a qualcosa per trovare un punto d’incontro a metà strada tra le proprie richieste. A cos’altro dovrebbero rinunciare i tuoi genitori? Quale punto d’incontro dovrebbero trovare i tuoi genitori con l’assassino della loro figlia? «Come può pretendere misericordia chi non ha avuto pietà della sua vittima? Come può pretendere attenuanti, giustificando la sua crudeltà con scuse e pretesti, chi con quella stessa crudeltà non ha concesso attenuanti, non ha dato ascolto né alle ragioni né alla sofferenza della sua vittima, non ha fermato la sua mano assassina davanti al suo strazio? Come può?» Queste sono parole di tua madre. 
Insomma, per quanto inconcepibile, dovrò abituarmi a questa contraddizione: tu sei morta, sei polvere, sei un fantasma, mentre l’uomo che ti ha uccisa è vivo e libero. 
Io continuerò a sentirti nelle parole di tua madre Giovanna, a vederti negli occhi di tuo padre Giuliano, e a immaginarti seduta accanto a tua sorella Elena. Ciao Giulia. 


* Giulia Galiotto, 30 anni, impiegata, è stata uccisa l’11 febbraio 2009 a San Michele dei Mucchietti (Sassuolo, MO) con almeno sette colpi di pietra alla testa da suo marito, che l’ha poi gettata nel fiume Secchia allo scopo di simularne il suicidio. Grazie all’incontro con i suoi genitori – Giovanna Ferrari e Giuliano Galiotto – ho voluto raccontarla restituendole la voce all’interno del libro E ’l modo ancor m’offende (Ed. San Paolo, 2022). 


(https://www.noidonne.org/articoli/per-giulia-galiotto-un-ricordo-e-una-denuncia-19024.php, 9 settembre 2022)

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