30 Ottobre 2020
Valigia Blu

Polonia, migliaia di cittadini da giorni protestano contro il divieto quasi totale di aborto

di Claudia Torrisi


Il 22 ottobre in Polonia la Corte Costituzionale ha deciso il divieto di ricorrere all’aborto anche nel caso in cui ci siano gravi malformazioni del feto. Con questa sentenza – che limita ulteriormente una delle leggi più restrittive in Europa riguardo l’interruzione volontaria di gravidanza – i giudici hanno stabilito che la legge che consentiva l’aborto in questi casi è incostituzionale. Di fatto, il paese va verso il divieto totale di interruzione di gravidanza, fino a questo momento consentita solo in tre casi: pericolo di vita per la madre, stupro e gravissima malformazione del feto. Quest’ultimo, secondo le organizzazioni per i diritti riproduttivi, rappresenta il 98% degli aborti legali in Polonia. Ufficialmente nel paese vengono effettuati poco più di un migliaio di aborti all’anno, ma secondo le attiviste si tratta di cifre non affidabili. Moltissime donne, però, interrompono la loro gravidanza clandestinamente o vanno all’estero appoggiandosi a reti di supporto.

La decisione della Corte – approvata con 11 voti favorevoli e 2 contrari – è arrivata in seguito all’appello presentato l’anno scorso da 119 parlamentari soprattutto del partito di estrema destra ultraconservatore PiS, al governo dal 2015, secondo cui l’aborto in caso di malformazioni fetali avrebbe violato la costituzione polacca, che proclama la protezione della vita di tutti gli individui. La Corte – composta da giudici in maggioranza nominati dal partito di governo – ha motivato la sentenza dicendo che non può esserci protezione della dignità senza protezione della vita. Consentire l’aborto in caso di malformazioni fetali rende legali «pratiche di eugenetica sui bambini non nati, e dunque nega loro il rispetto e la protezione della dignità umana», ha dichiarato la presidente del tribunale, Julia Przylebska, considerata vicina a PiS.

Un tentativo simile di limitazione dell’aborto c’era già stato nel 2016, bloccato dalle proteste di migliaia di donne che erano scese in piazza vestite di nero in diverse città della Polonia (manifestazioni conosciute come #BlackMonday o #CzarnyProtest), e poi ancora nel 2018. Le manifestazioni sono state sostenute da movimenti femministi di tutto il mondo. Anche lo scorso aprile, in pieno lockdown, il parlamento aveva iniziato la discussione di una proposta, poi rimandata indietro in commissione. In quell’occasione le donne erano scese comunque in piazza, pur rispettando il distanziamento sociale.

«È un giorno triste per i diritti delle donne», ha scritto su Twitter la commissaria per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović. «Rimuovere le basi per quasi tutti i tipi di aborto legale in Polonia equivale a un ban (messa al bando, N.d.R.) e viola i diritti umani. La decisione di oggi della Corte Costituzionale significa aborti clandestini o all’estero per chi se li potrà permettere e un calvario ancora maggiore per tutte le altre donne».

Dopo la sentenza migliaia di persone, donne e uomini, sono scese in piazza a manifestare, a Varsavia e in diverse città della Polonia, più di 150 secondo gli organizzatori.

Le proteste, coordinate dai movimenti femministi, hanno bloccato le strade e il traffico, e si protraggono da giorni con un’enorme partecipazione, nonostante i divieti e le restrizioni per l’emergenza coronavirus. Anche in Polonia i contagi stanno salendo di giorno in giorno. «Credo non si aspettassero che avremmo protestato durante il coronavirus», ha detto Marta Lempart, fondatrice dello Sciopero delle donne. «La situazione sanitaria sta peggiorando, ed è difficile e siamo preoccupate, tutti sono preoccupati».

Sebbene i sondaggi dicano che la maggioranza dei polacchi non sia a favore della legalizzazione dell’aborto, secondo una recente indagine condotta per il giornale Gazeta Wyborcza, il 59% degli intervistati non è d’accordo con l’ulteriore restrizione della legislazione esistente.

Secondo Antonina Lewandowska, coordinatrice del network Astra che si occupa di salute e diritti riproduttivi, ai cortei non partecipano solo donne arrabbiate: «Tassisti, contadini in alcune città più piccole. Autisti di tram e autobus nei centri più grandi hanno deciso di fermare i mezzi per partecipare alla protesta». In piazza sono scesi anche gruppi di medici, e molti ginecologi hanno criticato la decisione, denunciando la futura esponenziale crescita degli aborti clandestini.

Gruppi di manifestanti hanno fatto irruzione anche in alcune chiese cattoliche del paese, interrompendo le celebrazioni. Sono entrate portando cartelli e striscioni e intonando slogan come «avete sangue sulle vostre mani», «l’inferno delle donne», «lasciateci pregare per il diritto all’aborto» e «questa è guerra». In alcune chiese queste parole sono state scritte sui muri con delle bombolette spray. Ci sono stati scontri con le forze dell’ordine e con qualche gruppo di estrema destra che ha organizzato dei contro-presidi a difesa delle chiese.

Il leader di PiS, Jaroslaw Kaczynski, ha invocato l’uso dell’esercito, e ha affermato che i manifestanti stanno provando a «distruggere la Polonia»: «Dobbiamo difendere le chiese polacche, dobbiamo difenderle a ogni costo». In seguito a questo appello si sono verificati diversi casi di attacchi di gruppi di estrema destra ai danni di manifestanti.

Mercoledì scorso è stato dichiarato uno sciopero generale, lo “sciopero delle donne”. Centinaia di migliaia di persone – tra cui dipendenti pubblici, lavoratori del settore privato, indipendenti e anche studenti – si sono riversate per le strade di diverse città della Polonia. Anche i sindaci di alcuni comuni, tra cui quello della capitale Varsavia e di Cracovia, hanno deciso di supportare lo sciopero. Manifestazioni in solidarietà a quelle polacche sono state organizzate anche in altri paesi, con persone che si sono radunate davanti alle ambasciate ad esempio a Roma, Stoccolma o Lisbona.

A Varsavia il corteo è partito dalla sede di Ordo Iuris, un gruppo ultraconservatore che ha fatto campagna per il divieto di aborto, e si è diretto verso il parlamento, dove è stato circondato dalla polizia schierata in assetto antisommossa.

Secondo le organizzazioni non governative CIVICUS e International Planned Parenthood Federation (IPPF), alle manifestazioni è stato risposto «con eccessiva forza e violenza», sia da parte delle forze dell’ordine che di gruppi di estrema destra. Le autorità hanno utilizzato «lacrimogeni, spray al peperoncino e repressione fisica». Entrambi i gruppi, inoltre, hanno espresso preoccupazione per il paventato uso dell’esercito da parte del governo.

Giovedì, in un’intervista con la radio RMF FM, il presidente polacco Andrzej Duda – attualmente in isolamento perché positivo al nuovo coronavirus – ha dichiarato che le donne dovrebbero avere il diritto di abortire in caso di malformazioni fetali: «Non può essere la legge a richiedere questo tipo di eroismo a una donna». L’affermazione è molto diversa dalle frasi pronunciate dal presidente una settimana fa, subito dopo il verdetto della Corte Costituzionale e prima di sette giorni ininterrotti di partecipatissime proteste per le strade del paese: in quell’occasione il presidente aveva sottolineato la sua opposizione all’aborto anche se il feto è gravemente malformato e non sopravviverà al parto. Duda – che fa parte di un partito alleato con PiS – si è discostato così anche dalla linea di Kaczynski, facendo intendere la possibilità di un compromesso sulle restrizioni. Che però non è detto che sia sufficiente: se nel 2016 durante la Czarny Protest (la protesta in nero, NdR) le donne scese in piazza hanno difeso la legge esistente, adesso la misura è andata oltre e chiedono una vera normativa per l’accesso all’aborto legale e sicuro e la possibilità di scegliere sui propri corpi.

Intanto, il procuratore nazionale, Bogdan Święczkowski, ha inviato una lettera incaricando i suoi subordinati di procedere contro le organizzatrici e gli organizzatori delle proteste con l’accusa di «causare pericolo per la vita e la salute di molte persone provocando una minaccia epidemiologica». Si tratta di un reato, spiega Daniel Tilles sul sito Notes from Poland, per cui è prevista una pena detentiva che va dai sei mesi agli otto anni. Święczkowski ha aggiunto che anche solo il semplice appello all’organizzazione di manifestazioni può essere considerato istigazione al crimine, che comporta fino a due anni di reclusione.


(valigiablu.it, 30 ottobre 2020)

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