di Rosella Prezzo*
Strana storia quella del “genere”. Un termine, che originariamente prendeva il suo senso in ambito logico (classe comprensiva di più specie) o grammaticale (maschile, femminile, neutro), e che è diventato al giorno d’oggi una parola onnipresente, masticata all’infinito come un chewing gum ormai privo di sapore, usata senza sapere bene a cosa ci si riferisce. Contemporaneamente, però, il “genere”, sovraccaricato di senso, è assurto progressivamente a vessillo di una guerra: un’arma da impugnare contro presunti “nemici”, in un malinteso e distorto senso della libertà e della uguaglianza che si accredita come battaglia di civiltà. Chi sarebbero, poi, i nemici del genere? Si tratta soprattutto di “nemiche”, in particolare femministe, che pretenderebbero ancora di dirsi “donne”. E per ciò stesso vengono bollate come “omotransfobiche” in quanto perpetuerebbero il dominio eterosessuale in nome del loro sesso biologico.
Contro di esse assistiamo ad attacchi di particolare virulenza. E ci ritroviamo in una sorta di crociata nominalista (“in hoc signo vinces”) che, all’ombra di un acronimo impronunciabile (Lgbtqi+) e di una neolingua con asterischi come desinenze, propugna l’utopia post-sessuale dell’Uomo Nuovo. E cioè di un individuo indifferenziato, libero dalle costrizioni di un sesso, senza luogo né storia, tutto preso a issare la sua identità del giorno come segno di grande libertà.
La cosa più sconcertante è che la sacrosanta lotta contro ogni forma di sessismo, pregiudizi e discriminazioni, e per la tutela dei corpi di tutte/i da oltraggi e violenza a sfondo sessuale, che è sempre stato tra l’altro un obiettivo centrale dei movimenti femministi, si è trasformata in una parodia dell’egualitarismo di Rousseau.
Tale concezione sembra avere la seguente premessa: l’«Uomo nasce liberamente neutro mentre dappertutto è messo in catene», perché viene “assegnato” (tramite il nome e l’anagrafe) a un sesso determinato all’interno di un binarismo liberticida.
Il che vincolerebbe ciascuno (?) al suo sesso puramente biologico, impedendogli così di inventarsi identità molteplici, vagabondando tra generi e sessualità, autocreandosi e decreandosi in piena libertà.
La distinzione tra sesso (biologico) e genere (che ha connotazioni più psicologiche e culturali) fu introdotta in ambito psichiatrico negli anni ’50 per rendere conto dei casi di ermafroditismo e del diverso livello di sessuazione. Essa fu poi rielaborata negli anni ’70 da alcune teoriche femministe come categoria di analisi e usata per indicare la disparità e la gerarchia di valore dei ruoli attribuiti agli uomini e alle donne all’interno di un sistema di dominio.
Alla base di questa rivoluzionaria critica della cultura occidentale patriarcale stava lo smascheramento dell’Uomo come soggetto universale e la conseguente necessità di “deneutralizzare” la storia dell’umanità, restituendole la reale complessità della sua dimensione maschile e femminile, per una sua interpretazione più corretta e veritiera.
La categoria di genere, però, da «utile categoria di analisi storica» (come titolava un famoso saggio del 1986 della storica americana Joan Scott) è stata sempre più contrapposta al sesso. E, con uno slittamento sempre più accentuato, “uomini e donne” sono diventati i generi “maschile e femminile” e questi indicati come mere espressioni culturali, che ubbidiscono alla logica di dominio che si articola nella differenza sessuale.
Un’ulteriore trasformazione della concezione del genere porta a indicare la stessa differenza sessuale come costruzione sociale al fine di legittimare una sessualità normativa. Si tratterebbe allora, secondo la formula di Judith Butler, di «disfare il genere», mostrando il carattere totalmente fittizio e costrittivo dell’identità sessuale.
In quest’ottica la differenza sessuale sarebbe solo un binarismo artificiale costruito da «una cultura eterosessuale dominante», un dispositivo ideologico coercitivo che assegna agli uomini un sesso alla nascita per meglio controllarli.
Per combattere ciò si contrappone allora la proliferazione dei generi (gay, lesbiche, transgender, ecc.) in una catena tendenzialmente infinita dove ciascuno rivendica se stesso e il proprio gruppo di simili, in un’affermazione di libertà svincolata da ogni condizionamento naturale.
Si confonde così un sistema di dominio, che ha visto la gerarchia e la diseguaglianza tra uomini e donne fondate su una pretesa naturalità dei ruoli, con il “male” della differenza dei sessi. Ingenerando in più l’equivoco in base al quale se la si elimina (magari per Legge) sparirebbe anche il sistema di dominio. Magari attraverso una legge dello Stato che si incarica di definire i nuovi tipi antropologico-sessuali. Ma dovremmo ormai sapere, come la storia ci ha insegnato, che le utopie performanti dell’Uomo Nuovo sono il frutto di un’ingegneria sociale totalitaria foriera di violenze e liste di proscrizione. Dopo quella del cyborg e del postumano, la figura idealizzata del Trans diventa ora il modello per l’Uomo Nuovo, che oltrepasserebbe come un’arcaicità inutile, anzi una colpevole connivenza con il Potere, la differenza sessuale. Così si realizzerebbe l’utopia dell’Uomo svincolato finalmente dall’umana finitudine, che non è data solo dal fatto che siamo mortali ma dal fatto che si nasce da un corpo altro, da un corpo di donna, e non dalla propria volontà e dalla sua vertigine. Ma può esistere, nella vicenda umana, l’artificioso antagonismo antitesi tra natura e cultura, tra necessità e libertà?
Può darsi, da una parte, l’io di una persona che volontariamente possa indossare la sua identità di genere come un abito e, dall’altra, il suo corpo che definisce solo l’identità di sesso? Il corpo umano non è mai solo biologia o solo produzione culturale, ma è sempre biografia, storia singolare che ciascuno traccia nel tempo che gli è dato. D’altra parte, il processo di individuazione non si libra nel vuoto ma si radica in un corpo comunque sessuato. Riprendendo una formula kantiana, potremmo infatti dire che il sesso senza genere è cieco e il genere senza sesso è vuoto.
*Filosofa e saggista Scuola di Alta Formazione Donne di governo
(La 27esimaora – Corriere della Sera, 9 dicembre 2020)