5 Ottobre 2021
HuffPost

Quello che media e cinema non dicono sull’Afghanistan

di Luciana Borsatti


“Kamay”(work in progress) e “Kabul City in the Wind”: due titoli del Focus Afghanistan del festival Middle East Now appena conclusosi a Firenze


Se l’Afghanistan se lo sono ripresi i talebani, nemmeno in questi vent’anni di democrazia – sostenuta dai fondi e dalle forze militari internazionali – gli afgani hanno potuto riappropriarsi dell’immagine del proprio Paese: immagine che resta condizionata dagli stereotipi che dominano sui media stranieri e si trasmettono anche alla produzione cinematografica, grazie alla loro capacità di attrarre maggiori investimenti.

A evidenziarlo sono due giovani registi afgani, Ilyas Yourish e Aboozar Amini, fra gli ospiti del festival Middle East Now appena conclusosi a Firenze. I due sono rispettivamente gli autori del work in progress Kamay e del lungometraggio Kabul City in the Wind, due titoli del Focus Afghanistan del festival.

Nel ventennio scarso in cui i giovani hanno potuto accedere più liberamente all’istruzione vi è stato il tempo perché si formasse una generazione di giovani cineasti, in un processo virtuoso che ora, dalla presa talebana di Kabul, si è nuovamente fermato.

Ma anche in questi anni i giovani autori afgani hanno faticato a procurarsi mezzi e finanziamenti (tutti necessariamente di origine straniera) per una propria narrativa del Paese che andasse oltre i modelli legati ai fronti di guerra e alla lotta contro i fondamentalisti, e con le forze Usa sempre in prima linea.

I veri afgani non si vedono mai, ha osservato Aboozar Amiri, oppure sono come i puntini nelle immagini riprese dai droni: e se così si fissano nel nostro immaginario, come possiamo veramente sentire la tragedia di un attentato suicida con decine di vittime, come ve ne sono stati di innumerevoli in questi anni nel Paese? «Ciò che vogliamo è raccontare le storie e le emozioni degli afgani», ha aggiunto l’autore di Kabul, City in the Wind: la vicenda di tre bambini che vivono tra le strade polverose di un quartiere povero sulle alture di Kabul, e di un autista di autobus stretto tra i debiti che nessuno gli vuole più concedere e la necessità di aggiustare il motore che ormai è quasi un rottame. Solo per un decimo della sua vita non c’è stata guerra intorno a lui, dice l’uomo – nonostante tutto ancora scattante e attivo – all’inizio di questo lungometraggio girato con lo sguardo degli afghani.

E che indaga nelle vite, negli affetti e nei sogni sempre delusi di persone il cui destino è segnato da decenni di conflitti, di vite brutalmente interrotte o destinate a non riscattarsi mai dalla lotta quotidiana per la mera sopravvivenza, di migliori amici persi in un tragico attentato, di padri costretti a fuggire all’estero e bambini cui si chiede di diventare grandi troppo presto. E comunque di resistenza ostinata a tutte le avversità.

«I giornali occidentali parlano sempre degli stessi temi – ha osservato da parte sua IIyas Yourish – : se l’evacuazione ha avuto successo o meno, se i talebani sono cambiati in questi vent’anni, se sarà peggiore o migliore il futuro delle donne. Ma su tutto il resto c’è un vero e proprio blackout mediatico».

Un vuoto informativo, per esempio, sulle esperienze di democrazia che si stavano formando dal basso all’interno delle comunità, ma che riguardano anche alcune regioni dell’Afghanistan centrale come Daikundi – la provincia della prima sindaca donna dell’Afghanistan, Azra Jafari – dove ora, informa il regista, centinaia di famiglie Hazara sono state costrette dai talebani a lasciare le loro case.

In Afghanistan «ci sono molte storie non raccontate nascoste dietro ai titoli dei giornalisti di guerra», ribadisce nella presentazione del suo Kamay, un film ancora in lavorazione e firmato con Shahrokh Bikran. L’opera narra di una famiglia che vive proprio in quella isolata regione montana e dei suoi sforzi per sapere la verità che si cela dietro il suicidio di una delle figlie, nella casa dello studente all’università di Kabul. «La famiglia di Zahra cerca giustizia in uno dei Paesi più corrotti al mondo – aggiunge – e dove le minoranze subiscono discriminazioni».

Ma storie di vita come queste, prosegue, non trovano casa nella produzione cinematografica dominante, mentre le guerre di questi decenni «hanno indurito lo spirito degli afgani quanto la pietra delle loro montagne».

Entrambi i registi sono Hazara, vivono in Olanda e in Belgio e fino al 15 agosto scorso viaggiavano regolarmente in Afghanistan. Dopo la rapida riconquista del Paese da parte dei talebani e nei frenetici giorni del ritiro delle forze occidentali, si sono adoperati insieme ad altri per far uscire gente del cinema e della cultura dal Paese, in accordo con alcuni governi europei, anche se molti che pur erano in lista non sono riusciti a salire sugli aerei della grande fuga.

Ora queste migliaia di persone che ancora rischiano le ritorsioni dei talebani l’Europa non le può dimenticare, e servono politiche attive per una tempestiva concessione dei visti e la creazione di corridoi umanitari. Ma l’Europa non può nemmeno lasciare soli quei milioni di afgani che resteranno in patria, e per i quali si sono già drammaticamente aperti scenari di sofferenza, persecuzione, violenze, omicidi e inaccettabili limitazioni dei diritti, cui si aggiunge la grande crisi economica e umanitaria in atto.

Al di là del nodo politico del riconoscimento del governo talebano, difficile pensare che questi problemi possano essere affrontati senza un qualche canale di interlocuzione con i nuovi, e pur detestati, padroni del Paese.


(HuffPost, 5 ottobre 2021)

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