11 Luglio 2025
HuffPost

Se l’alienazione parentale si equipara alla violenza sulle donne si cede alla cultura patriarcale

di Sarantis Thanopulos


Il singolare caso del municipio VI di Roma che ha aperto uno sportello per uomini maltrattati psicologicamente


Il Municipio VI di Roma ha aperto uno sportello per uomini maltrattati psicologicamente. Chiamando in causa la sindrome di “alienazione parentale”. Con questo termine, caro ad alcuni avvocati impegnati in cause di affido dei minori, si intende definire il comportamento patologico di un genitore che cerca di isolare il figlio dall’altro genitore, manipolando i suoi affetti. La diagnosi di questa sindrome, priva di valore scientifico, è usata contro le madri nelle contese legali dei figli.

Sulla questione si è espressa con chiarezza la Corte della Cassazione nel febbraio del 2024 (ordinanza 3576/2024): «Non è mai ammissibile, in queste procedure, far discendere dalla diagnosi di una patologia, anche se scientificamente indiscussa, ma a maggior ragione se dubbia, una presunzione di colpevolezza o di inadeguatezza al ruolo di genitore, completamente avulsa dalla valutazione in fatto dei comportamenti. L’eventuale diagnosi di una patologia, invece, il cui rigore scientifico può e deve essere apprezzato dal giudice, peritus peritorum, potrà aiutare a comprendere le ragioni dei comportamenti ma non può da sola giustificare un giudizio – o pregiudizio – di non idoneità parentale a carico del genitore».

È interessante, oltreché molto imbarazzante, la risposta dell’assessore alle Pari Opportunità del Municipio VI, Chiara Elisabetta Del Guerra, alla sua omologa del Comune di Roma, Monica Lucarelli, che contestava l’iniziativa. Afferma Del Guerra: «Le “pari opportunità” mirano a garantire a tutti gli individui, a prescindere da genere e dalle altre caratteristiche personali, la partecipazione alla vita sociale senza subire discriminazioni. La violenza di genere riguarda la violenza contro le donne e contro gli uomini: una violenza di genere, appunto. Altrimenti si parlerebbe esclusivamente di violenza sulle donne. Il Municipio VI è l’unico, a Roma come in Italia, ad avere un centro d’ascolto per gli appartenenti alla comunità Lgbtqia+, di prossime aperture un centro antiviolenza e una casa rifugio per donne vittime di violenza. Con il centro d’ascolto per uomini vittime di violenza, copriamo interamente il senso della violenza di genere».

L’assessore Del Guerra ha un’idea molto generica delle pari opportunità e della violenza contro le donne. È portatrice di un pensiero che confonde le cose e i loro significati, usando ragionamenti paradossali, “sofistici”, e ha come suo obiettivo diluire, per occultarla, la percezione di una realtà mortificante: la violenza che le donne, in quanto donne, subiscono dentro il sistema patriarcale e la loro condizione sociale manifestamente, scandalosamente impari, rispetto a quella dei maschi.

C’è un sillogismo nelle affermazioni dell’assessore che costituisce il loro pilastro e, al tempo stesso, tradisce l’ideologia a cui sono ispirate: se si parla di “violenza di genere”, si parla di violenza contro ogni “genere”, quindi anche contro gli uomini e non solo contro le donne. Questo fraintendimento, frutto di un assoggettamento a una visuale puramente maschile della realtà, trova il suo sostegno nell’uso generalizzato dell’espressione “violenza di genere” che ha sostituito dannosamente l’espressione chiara, e priva di ambiguità formali e ideologiche, “violenza contro le donne”. Il termine “genere” significa un’azione violenta: la sovradeterminazione sociale dei sessi che reprime la libertà erotica, affettiva e mentale delle donne e assegna loro un ruolo subalterno a quello degli uomini. Se usassimo i concetti in modo pensato e non arbitrario (secondo ciò che ci sembra più conveniente), dovremmo dire “violenza del genere” per definire la violenza che la classificazione degli esseri umani in categorie, generi sociali esercita sul corpo femminile comprimendo la profondità e l’intensità del suo coinvolgimento.

Nella società patriarcale il genere femminile nasce come costola di quello maschile, come Eva da Adamo. La violenza che gli uomini esercitano sulle donne ha la sua origine profonda nel fatto che è il loro genere a definire quello delle donne. Il genere maschile è un canone, in gran parte invisibile, che reprime anche i maschi come soggetti desideranti. Questo canone è alla base della diffusione attuale di “generi”, categorie astratte che convertono le varie forme di orientamento o di identità sessuale in entità a sé stanti, avulse dalle relazioni in cui sono realmente implicate. La proliferazione di generi fa sparire la diversità delle donne.

In un suo rapporto del 16 Giugno Reem Alsalem, la relatrice speciale dell’Onu sulle violenze contro le donne e le ragazze, ha denunciato questa situazione: «Recentemente c’è stata una concertata spinta internazionale a slegare la definizione di donne e uomini dal sesso biologico e a cancellare la definizione legale di “donne”. Tali sforzi hanno minato la realizzazione pratica della parità tra donne e uomini. Alle donne è stato negato il loro giusto riconoscimento come categoria distinta sul piano legale e sociale. Ciò è una forma di “inclusione coercitiva” facente affidamento sull’aspettativa che le donne saranno abbastanza gentili da sacrificare il proprio riconoscimento e la propria protezione nell’interesse di altri».

La violenza maschile contro le donne non può e non deve in alcun modo essere gettata in mezzo alle altre forme di violenza ed essere confusa con esse. È la madre di tutte le violenze (e di tutte le discriminazioni), anche perché la restrizione castrante del desiderio che i maschi subiscono a causa del loro dominio sociale è l’origine silenziosa della violenza tra di loro. La violenza psicologica (ancora prima che fisica) a cui è sottoposta da sempre la donna (repressa nel suo modo di desiderare, sentire e pensare) è la malattia della nostra civiltà e sentir parlare un’assessora alle pari opportunità di uomini “psicologicamente maltrattati” è scioccante. Il discorso di Del Guerra obbedisce all’esigenza di rinunciare a pensare liberamente per adattarsi a una società in cui si cancella la differenza tra vittime e carnefici, tra oppressi e oppressori. È il segno di una “servitù volontaria” (La Boetie) al potere patriarcale e non è una cosa buona per nessuno, in primo luogo per lei.


(HuffPost, 11 Luglio 2025)

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