9 Ottobre 2023
Strisciarossa

Tina Merlin e la tragedia del Vajont

di Toni Jop


E quindi, che dovrei fare? «Per ora, e senza fretta, ti assegno la convegnistica, così impari ad ascoltare quello di cui ti frega niente», scusa, non vorrei lamentarmi, ma io che non ho mai sonno vado in trance a un convegno… «Senti, devi avere pazienza, ti mando in quei posti noiosi perché lì impari a scoprire, se c’è, la notizia in un mare di parole e di recite a soggetto… fìdati…».

Tina Merlin è stata, cioè, una maestra di giornalismo, per me e per altri ragazzi alle prime armi, chiusi allora in uno stanzino al pian terreno del palazzo sul Canal Grande, ingresso da Corte del Remer, che ospitava, con l’Unità, la federazione provinciale e la segreteria regionale del vecchio Pci.

Sto parlando di storia discretamente lontana, a metà degli anni Settanta, il tempo in cui il Partito Comunista sembrava alle porte del governo e quella gloriosa testata giornalistica pareva saper interpretare esattamente ciò che Gramsci aveva “prescritto” per il suo futuro, sulla strada della lotta di classe e più in generale nella globale vicenda del movimento operaio e di tutti i lavoratori. Vendendo, tra l’altro, un mare di copie che, di domenica, faceva impallidire i grandi quotidiani nazionali.

Tina era la caporedattrice di una redazione piccola ma ricca di vita e di fascino. Accanto a lei, ecco Ferdi Zidar, un meraviglioso compagno, piccolo, intelligente e sornione, che a Dachau, da internato, aveva fondato la cellula del Pci. Gente formidabile. Tina veniva dalla Resistenza che aveva servito da coraggiosa staffetta, e, più avanti, dal Vajont, voragine di sistema che lei, da sola sul fronte della comunicazione, dalle pagine de l’Unità aveva messo a nudo ben prima che il monte Toc, nel Bellunese, rovesciasse una enorme frana nell’invaso della diga ai suoi piedi, spingendo in aria e verso valle un’onda gigantesca che aveva spazzato villaggi e migliaia di vite. Tina Merlin aveva avvisato che sarebbe stata tragedia, e così fu; aveva visto giusto, da brava giornalista libera (e bella, perché Tina, mi permetto di ricordarlo, era anche una bellissima donna) aveva raccolto voci e testimonianze tra gli abitanti della valle, aveva messo assieme i micro-eventi che avevano annunciato il crollo ma il potere politico, la stampa, molti tecnici preferirono trascinarla in tribunale invece che ascoltarla. E duemila esseri umani persero la vita per questa grettezza, ma del resto l’affare era troppo grande, impegnava troppi soggetti istituzionali e no a sua protezione per permettersi che la verità delle cose fosse posta in una luce corretta.

L’intera vicenda del Vajont, a cominciare dalle pagine più fangose di quella tragedia, si manifesta oggi come paradigma di ciò che accade quando la denuncia giornalistica, legata a dati e prove, va a colpire gangli di potere eccellenti, una sorta di parabola lucidissima sul potere e sulle sue reattività. Quando gli interessi sono di quel livello, la verità finisce in tribunale e deve rispondere di un “crimine” quasi sempre in grande solitudine. C’è una bella battuta in un vecchio pezzo del 1970 firmato e cantato da Chico Buarque de Hollanda, “In memoria di un congiurato” che – tradotta da Sergio Bardotti – riassume bene questa “morale”: «Se nel mondo un giusto grida, il carnefice verrà… chi sta zitto resta vivo, chi ha coraggio morirà… Ora che è morto e sepolto, si può cantarne la gloria, si può perfino parlarne in qualche libro di storia». Pare la vita di Tina Merlin, che amava la vita e i cappuccini e non aveva paura di nessuno.

Abbiamo vissuto anni si può dire assieme, il tempo della mia formazione professionale. Si lavorava dieci dodici ore al giorno, davanti alle fragorose Olivetti sui cui tasti arrancavo mentre mi sciroppavo tonnellate di convegni tremendi, quasi dolorosi per uno come me che sognava l’avventura della cronaca, bianca o nera poco importava, e invece eccomi a portare, di sera, i pezzi precotti lungo i binari della stazione veneziana di Santa Lucia, per spedirli, come si usava, “fuorisacco”.

Si parlava molto, io volevo sapere, capire e lei raccontava, anche del Vajont. Per esempio, diceva che all’inizio anche nel Pci e ne l’Unità qualcuno avrebbe preferito non dare troppo peso a quello che scriveva su quel monte gonfio d’acqua che assediava minacciosamente valle e paesi. Non si sentiva un’eroina, troppo concreta e diretta per crogiolarsi nel vittimismo, troppo lontana dall’epica per allestire un altarino tutto suo. Era una orgogliosa montanara di Trichiana, emancipata dall’impegno politico – che gran scuola di saperi e di dignità quell’impegno per milioni di bravi umani di allora – e comunque innamorata delle patate che così buone – assicurava – potevano uscire solo dalle zolle della sua terra d’origine. Intanto, curava la sua difesa nel corso di un interminabile viaggio processuale a suo carico, un tormento vero che affrontava con trasandato fastidio. Mi sembrava davvero più che sorprendente quel suo stato d’animo privo di asprezze di fronte a una ingiustizia subita da chi, fosse stata ascoltata, avrebbe garantito la sopravvivenza di duemila esseri umani, e invece eccola costretta a rispondere in un tribunale di quegli avvisi, dei quali poi si era potuta constatare la tristissima fondatezza.

Era fatta così, refrattaria alla teatralità e alle sue ben giustificate lusinghe: così come aveva rischiato più volte la vita per trasferire messaggi e altro ai partigiani, si era infilata in una vicenda poderosa in grado di frantumare le ossa a chiunque. Capelli fitti e biondissimi, occhi vivacissimi, sempre positiva, buona conoscitrice della vita, pantaloni, comunista italiana senza fronzoli né dèi, faceva ciò che le sembrava giusto, e questo lo fanno in molti, ma andava fino in fondo, senza badare alle resistenze questa volta di potere e all’immensità dei giganti che aveva disturbato.

Niente avrebbe potuto fermarla, solo la morte, come un grande scalatore che mentre risale una parete non guarda mai lo strapiombo sotto i suoi piedi. Aveva il grande Pci alle spalle, e lei voleva bene al Pci, lo rispettava, lo criticava, gli attribuiva un senso forte soprattutto sotto il profilo dell’organizzazione di massa. Con una sensibilità particolare, che ho fatto mia, nei confronti delle strutture organizzative del popolo della sinistra, un telaio di umani che non si costruisce con facilità e quindi quando esiste siamo di fronte a una risorsa più che preziosa, da salvaguardare con cura, comunque.

Siamo forse alle radici di quel senso di responsabilità nei confronti del partito di massa della sinistra che ancora tiene banco nel contesto politico attuale. Ma la forza che la animava sul fondale del Vajont veniva, mi pare, da profondità pre-politiche in cui ribollivano il senso della giustizia e il suo ruolo di giornalista, di cui rivendicava l’autonomia anche nei confronti di quel Pci di cui l’Unità era non semplice “voce” ma “organo”. La sua distanza dalla “scena” si misurava anche dalla mancanza di sopportazione che provava di fronte a una aggettivazione che in un articolo le pareva troppo ricca. Scrittura asciutta, lineare, limpida, essenziale, la sua, e allo stesso tempo intelligente, acuta, messaggera di umana, misurata morbidezza.

Così ricordo la mia prima maestra di giornalismo. Che ragazzo fortunato.


(Strisciarossa, 9 ottobre 2023, pubblicato con il titolo “Da staffetta nella Resistenza a partigiana della verità, Tina Merlin che vide arrivare la tragedia del Vajont e non fu creduta”)

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