9 Giugno 2021
Globalist

Usare un femminicidio per attaccare il femminismo

di Paola Rizzi


Il caso drammatico di Saman Abbas sta sviluppando un nuovo genere letterario parallelo, che con la terribile vicenda di questa coraggiosa ragazza pachistana non ha nulla a che fare: variazione sul tema di tutto quello che avrebbero dovuto dire e fare le femministe di sinistra che non hanno detto e fatto. Se e quando tutti gli aspetti saranno chiariti, forse capiremo meglio perché Saman dopo essersi ribellata ad un matrimonio forzato si sia riconsegnata nelle mani di quelli che con ogni probabilità sono stati i suoi parenti carnefici, nonostante il parere contrario della casa famiglia che l’aveva accolta e dei carabinieri a cui si era rivolta. Non era stata lasciata sola ma certo qualcosa non ha funzionato nel suo percorso di protezione e quindi occorrerà fare meglio. Il punto è che il femminicidio di Saman è diventato pretesto su siti e giornali per parlare d’altro, ossia per una narrazione che accusa la “sinistra” e le “femministe” di non aver parlato abbastanza di questa vicenda a causa di: a) il relativismo culturale che tende a tollerare o ignorare le pratiche tribali delle minoranze islamiche; b) il disinteresse delle femministe per quello che capita alle donne migranti e in particolare di religione islamica. Quindi in questi giorni si sono moltiplicati editoriali, commenti e riflessioni non tanto sull’orribile destino di Saman, ma su quanto quell’orribile destino smascheri da un lato la pericolosa islamofilia della sinistra (che poi si intende Pd) e dall’altro la tendenza Wasp delle femministe che parlano solo di sciocchezze come il catcalling e l’asterisco e poi mute sul martirio di una sorella migrante. Sono argomenti tirati fuori periodicamente dalla destra che coglie queste occasioni per rivendicare come giustificato il proprio posizionamento islamofobo e anti politically correct contro la tolleranza molle della sinistra, femministe incluse. Queste critiche però sono state mosse anche da un fronte più interno. La palla l’ha alzata Ritanna Armeni il 4 giugno, denunciando il proprio personale malessere e il rimorso di femminista storica per non aver parlato subito a voce alta di questa vicenda. Un caso che è comparso sulle cronache prima locali e poi nazionali a fine maggio. E che si è acclarato come femminicidio negli ultimi giorni. Se non si vuole parlare delle cose quando ancora non si sa come siano andate, non è passato esattamente un secolo. A meno che non basti l’appartenenza dei protagonisti ad una comunità, quella islamica, per autorizzare scorciatoie nei giudizi. 
A cavalcare tra gli altri (soprattutto la stampa di destra) la questione dell’ignavia delle femministe e della sinistra con un proliferare di interviste e commenti anche l’Huffington post, diretto da quel Mattia Feltri che aveva censurato il blog di Laura Boldrini perché in una riga di un commento sulla giornata contro la violenza delle donne aveva osato citare il papà Vittorio, che aveva dato dell’ingenua alla ragazza violentata per una giornata da Genovese nella Terrazza Sentimento. Strani corto circuiti. 
Il risultato paradossale è stato spostare l’attenzione da Saman e dall’analisi di quello che è successo per evitare che si ripeta, allo screening di chi parla o meno di Saman e di come ne parla. Ora che sappiamo per certo che è un femminicidio, a prescindere dalla religione di chi l’ha commesso, sappiamo che si aggiunge alla lunga lista, già 38 quelli del 2021, due a settimana, che avvengono ormai come tragica routine per i quali non vengono richieste alla “sinistra” o alle femministe specifiche performance. Forse perché le vittime non sono musulmane e denunciare solo il patriarcato che uccide e la misoginia della porta accanto non è carino e persino un po’ noioso. Tutti e 38 i casi, ora possiamo dire 39, ci dicono che bisogna rimboccarsi le maniche per salvare le donne, cambiare la cultura, smontare stereotipi e pregiudizi, senza crearne altri.


(globalist, 9 giugno 2021)

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