di Marina Terragni
Alla notizia il Corriere della Sera dedica un “francobollo” quasi invisibile, Repubblica la oscura del tutto (paginate, invece, sulle salme dei Savoia). E invece la sentenza della Corte Costituzionale in merito a un caso di utero in affitto richiederebbe tutta l’attenzione, a maggior ragione da parte dei quotidiani più diffusi e del servizio pubblico televisivo, che sul tema continua a latitare.
La sentenza segna un punto fermo e irreversibile riguardo alla pratica, che «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» costituendo un disvalore assoluto: giudizio che riguarda tutte e tutti, non solo i possibili “utenti del servizio”, perché tiene all’orizzonte un’idea di civiltà che riconosce nella relazione materna un fondamento irrinunciabile e inviolabile dal mercato.
Risuona nella sentenza il giudizio del Consiglio d’Europa che classifica l’utero in affitto tra le più gravi violazioni dei diritti umani. Il che è di grande conforto per tutti quelli, e in particolare quelle, che hanno resistito con grandi difficoltà alla narrazione mainstream secondo la quale questo orribile mercato sarebbe solidarietà, generosità, dono.
Ma anche in questa sentenza, come quasi sempre nel discorso pubblico sull’utero in affitto, di fatto la creatura scompare. Paradossalmente, dico, perché il superiore interesse del minore è più volte menzionato. E’ proprio in base a questo superiore interesse, infatti, che “la verità biologica della procreazione“, che “costituisce una componente essenziale dell’identità personale del minore“, va bilanciata con altre componenti.
Detto alla buona: vero che in assenza di legami genetici non puoi pretendere di essere registrato tout court all’anagrafe come genitore di un bambino nato all’estero da utero in affitto. Ma se si intraprende un iter legale e nel frattempo quel bambino lo stai crescendo -data la tempistica media degli iter legali- e quindi si è prodotto un attaccamento, è senz’altro nel suo interesse poter continuare a vivere con te e non esserti tolto e posto in adozione.
Il paradosso è qui: che come in molte sentenze dei Tribunali, si finisce per sancire come superiore interesse del minore il fatto essere stato brutalmente separato in cambio di soldi dalla donna che l’ha messo al mondo, e che per lui è senza alcun dubbio sua madre.
Ergo: l’utero in affitto è sì una pratica indegna e un disvalore assoluto. Ma se dello stigma non ti importa un granché e il figlio te lo fai ugualmente confezionare, in Ucraina, in Canada, in California (o molto peggio), alla fine un modo di aggiustare le cose si troverà e i Tribunali, pur stigmatizzandoti, una via d’uscita te la indicheranno. In buona sostanza: la sentenza della Suprema Corte avrà effetti scarsi o nulli sul turismo procreativo per Gpa, e il numero di bambini compravenduti da parte di cittadini italiani non smetterà di crescere. […]