18 Agosto 2021
Corriere della Sera

Afghanistan, la sindaca e la governatrice che si opponevano ai talebani

di Marta Serafini


Zarifa Ghafari se ne sta nascosta: «Aspetto che mi vengano a prendere». Mentre di Salima Mazari non si hanno più notizie e si teme possa essere stata catturata [come è stato poi confermato. Ndr].

«Sono qui seduta in attesa che arrivino». Diceva così domenica al New York Times Zarifa Ghafari, ventisette anni, la sindaca più giovane dell’Afghanistan, nella provincia di Maidan Wardak, da sempre in prima linea per i diritti delle donne. Nominata nell’estate del 2018 dall’allora presidente Ashraf Ghani, Ghafari è una delle poche donne ad aver mai ricoperto un incarico governativo nella città conservatrice di Maidan Shar. «Sono distrutta. Non so su chi fare affidamento. Ma non mi fermerò ora, anche se verranno di nuovo a cercarmi. Non ho più paura di morire».

Suo padre, il generale Abdul Wasi Ghafari, è stato ucciso il 15 novembre dello scorso anno, appena venti giorni dopo il fallimento del terzo attentato alla sua vita. Nel suo primo giorno da sindaca è stata presa d’assalto da parte di un gruppo di uomini che l’ha costretta a fuggire. Tornata al suo posto, nonostante le minacce durante il suo mandato ha introdotto una campagna contro l’abbandono dei rifiuti nella sua città ed è diventata un modello per le altre donne. Poi, con il ritorno dei talebani, a Ghafari è stato dato un impiego al ministero della Difesa a Kabul, con la responsabilità del benessere dei soldati e dei civili feriti in attacchi terroristici. Tre settimane fa diceva «I giovani sono consapevoli di ciò che sta accadendo. Hanno i social. Comunicano. Penso che continueranno a lottare per il progresso e per i nostri diritti. Penso che ci sia un futuro per questo Paese». Ora, mentre i talebani tornano al potere e promettono di rispettare i diritti femminili, Ghafari, come molte altre donne, è scettica e rimane nascosta temendo per la sua vita.

Da giorni non si hanno più notizie – e c’è chi vocifera che sia stata catturata – di Salima Mazari, quarantun anni. Nata in Iran, dopo che la sua famiglia è fuggita dall’invasione sovietica in Afghanistan, è di etnia hazara, gruppo inviso sia ai talebani che all’Isis. Dopo essersi laureata a Teheran, ha lavorato all’università cittadina e per l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Poi, la decisione di tornare in Afghanistan. «La cosa più dolorosa dell’essere un rifugiato è la mancanza di una patria», ha raccontato al Guardian nelle scorse settimane. «Nessun posto è il tuo paese».

Salima Mazari era una delle tre governatrici distrettuali ed era al comando del distretto di Charkint, nella provincia settentrionale di Balkh. Sotto di lei, trentamila persone. Ciò che distingueva questa donna dalle altre afghane era il suo stile di leadership. «A volte sono in ufficio a Charkint, altre volte devo prendere una pistola e unirmi alla battaglia», diceva. Il suo lavoro non significava solo gestire la burocrazia quotidiana, ma anche organizzare le operazioni militari. E da luglio incontrava ogni giorno i comandanti delle sue forze di sicurezza. Così era riuscita a tenere lontani i talebani da Charkint.

L’anno scorso, Mazari aveva negoziato con successo la resa di oltre cento combattenti nella sua regione. La sua reputazione di donna forte, che si opponeva alla brutalità dei talebani, ha messo (e mette tuttora) a rischio la sua vita. «Non ci sarà posto per le donne», ha dichiarato all’Ap mentre i talebani entravano a Kabul. Poi il silenzio. Su Change.org è partita una petizione per chiederne la liberazione. «Io non ho paura», diceva. «Credo nello stato di diritto in Afghanistan».


(Corriere della Sera, 18 agosto 2021)

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