di Natalia Aspesi
Su una bancarella di libri usati, anni fa, ho trovato un libriccino malconcio, tra l’altro assurdamente costoso, ma io se vedo la parola women, Frauen, femmes, mujeres, donne, non so resistere, l’ho stoltamente comprato e adesso fortunosamente ritrovato tra i tanti dedicati alla nostra storia di femmine e alle nostre lamentazioni e maledizioni. In inglese e tedesco, è intitolato Donne in Afghanistan, autrice la giornalista Fahima Rahimi, pubblicato nel 1977 con la collaborazione di Nancy Hatch Dupree, la celebre storica americana che ha dedicato la sua vita a quella terra per noi tuttora immaginaria. Ma già allora era ormai troppo tardi, e le copie finirono tutte nei magazzini governativi; dove rimasero nei pochi mesi che restavano della pur breve Repubblica dell’Afghanistan, luglio 1973 – aprile 1978, e poi probabilmente distrutte. Ne esisteva pare una sola copia conservata alla Fondazione Bibliotheca Afghanica di Bubendorf, in Svizzera (che non ho capito se esiste ancora), poi malamente ristampata in poche centinaia di copie nel 1985, con un nuovo scritto di Dupree. Una copia è quindi, oggi, un mio triste tesoro.
Che mondo sconosciuto, perduto o forse mai esistito, queste paginette mostrano a me e alle altre sapientone d’Occidente, colpevolizzandoci attraverso decine di fotografie di donne afgane senza neppure un foulard legato sotto il mento, i capelli neri tagliati corti e molto cotonati; belle signorine col cappellino di paglia nel 1905, spose di emiri nel 1909 coi capelli raccolti adornati di fiori e abiti parigini, la regina Soraya con l’abito al ginocchio e il diadema in testa nel 1928, una ragazza intenta a leggere tra molti libri nel 1918, e nel 1927 un fitto gruppo di fanciulle col basco sbarazzino mandate all’estero a studiare. Nell’agosto 1959, le donne della famiglia reale e le mogli e le figlie dei ministri e dei capi militari si riuniscono senza il chadri (che sbagliando io chiamo burqa), col sostegno del primo ministro Daud che poi spodesterà il re, Zahir Shah, mentre è in Italia a curarsi, e scriverà una nuova Costituzione in favore delle donne. Che per la prima volta nel 1970 si erano già assiepate a migliaia in una piazza di Kabul per reclamare più libertà – i capelli trattenuti da uno svolazzante fazzolettino bianco.
Laureate, hostess, calciatrici
Rahimi e Dupree scrivono il loro libro nei pochi anni della Repubblica dell’Afghanistan, tempi di metodica, calcolata, graduale liberazione delle donne, che pare non offendere del tutto i tradizionalisti. E infatti ecco in queste foto il primo gruppo di universitarie laureate con la mantella nera e il tocco, le studentesse della facoltà di medicina e della scuola per segretarie, le hostess dell’Ariana Afghan Airlines, le soldatesse in parata, la squadra di calcio, la ministra della salute, la parlamentare, la responsabile dell’istruzione nelle campagne, la stampatrice.
Va detto che molte di queste fotografie risalgono a prima della Repubblica, agli anni ’60, cioè quando il Paese era ancora una monarchia e il re aveva già voluto una Costituzione che tendeva al cambiamento. Nel nuovo scritto del 1985, Nancy Dupree racconta come il colpo di Stato dell’aprile 1978, tra l’altro sanguinoso (assassinato anche Daoud), mise fine a questi pochi anni di speranza: i rivoluzionari però non erano fanatici religiosi come oggi i talebani. All’opposto, gli uomini del Pdpa, il Partito democratico dell’Afghanistan, pretendevano molto di più: «Liberare subito le donne dalla tirannia patriarcale del passato», abbandonando ogni cautela, imponendo un istantaneo cambiamento con l’immediata fine dell’analfabetismo e del potere familiare, la chiusura delle moschee e la proibizione del velo. Scrive la Dupree: «La loro tattica tirannica, la retorica stridente, e il Paese attonito, spingeva sempre più famiglie a scegliere l’esilio in Pakistan per preservare l’onore delle loro donne. Tra i rifugiati l’idea dell’istruzione femminile divenne anatema, l’istituzione del chadri e del purdah (la proibizione degli uomini a guardare le donne) divenne molto più severa che in passato». E le donne rimaste in Afghanistan, di cui si voleva imporre la liberazione? «I nuovi rifugiati in Pakistan raccontano che negli asili insegnano solo a seguire il partito e che i genitori appena ricevono i complimenti per i successi scolastici delle loro bambine, subito fuggono oltre confine. Nulla cambia nelle zone rurali in mano ormai ai freedom fighters. Molte ragazze per protestare contro l’occupazione sovietica si sono rimesse il chadri e sono state arrestate».
Madri e neonati agli arresti
Nella nuova edizione Nancy Dupree inserisce la storia di Fahima Nasery, un’insegnante di fisica e matematica in una scuola femminile dal 1969 al 1981, arrestata due volte perché sospettata di far parte della resistenza antisovietica, imprigionata due volte per quasi due anni assieme a tante altre donne e ai loro figli anche neonati, sottoposta a interrogatori feroci dalla Khad, la polizia segreta afgana emanazione del Kgb sovietico. Il mio librettino parla delle conseguenze tragiche dell’invasione sovietica del 1979 senza nominarla, il resto saranno decenni di orrori, che gli storici e la stessa Dupree hanno poi raccontato. I 6 milioni di rifugiati, i probabili 2 milioni di morti, le amministrazioni americane (Carter e Reagan) che armano i rivoluzionari antisovietici, e da quel momento inarrestabili guerre civili. E, adesso, quello che oggi quotidianamente vediamo, finalmente svegliati dal dolore di questo popolo che continua ad esserci sconosciuto; credo perché forse siamo comunque dalla parte dei predatori, dell’Occidente che da sempre, Inghilterra compresa, ha voluto liberare l’Afghanistan senza permetterle di liberarsi da sola. Chiarisco che non so nulla di politica e ben poco di storia come è facile capire, che vago come credo tutti nell’oscurità e nel pregiudizio. Forse solo Nancy Dupree potrebbe aiutarci a capire, ma è morta a Kabul nel 2017 a 86 anni e là è sepolta. Più volte aveva cercato di spiegare ai venditori di democrazia che forse gli afgani ce l’avrebbero fatta, perché avevano già cominciato un lento processo di cambiamento. Ma nella nostra superbia e avidità abbiamo voluto imporre la nostra civiltà, e nessun paese può accettare aiuto quando l’aiuto è armato.
Nancy contro tutti
Nancy Hatch Dupree, dunque, americana e studiosa della cultura afgana. Ha sfidato in difesa di quelle terre i comunisti, i fondamentalisti, i signori della guerra e gli invasori stranieri. Per quasi cinquant’anni. Ha creato un immenso archivio soprattutto sui momenti più tragici della storia afgana e salvato la preziosa collezione di ori del Museo nazionale dalle varie incursioni terroristiche e straniere. Figlia di uno scienziato e di una ex-attrice, nata nel 1927, moglie di un diplomatico a Kabul, lo piantò subito per sposare nel 1966 Louis Dupree, per vent’anni direttore della Missione archeologica americana in Afghanistan, dedicandosi completamente a studiare e capire quella civiltà, esplorando tutto il Paese allora in gran parte pacifico e organizzando una libreria mobile con cui raggiugere le zone rurali abbandonate all’analfabetismo e alla povertà. Fino all’ennesimo colpo di stato seguito dall’invasione sovietica, quando suo marito fu prima imprigionato e poi estradato insieme a lei. Si stabilirono a Peshawar, sul confine pachistano ad aiutare i rifugiati. Tornata anni dopo, guardando gli studenti che riempivano la biblioteca dell’università e le sale dei computer, espresse la sua fiducia nei giovani per la salvezza del Paese. Karzai, ai tempi della sua presidenza, la chiamò «amata figlia dell’Afghanistan»; lei preferiva «antico monumento dell’Afghanistan».
(il Venerdì, inserto di La Repubblica, 27 agosto 2021)