di Franca Fortunato
Sono passati otto anni dal film “Anime nere” di Francesco Munzi dove il regista dava delle donne delle famiglie di ’ndrangheta, lasciate ai margini, un’immagine stereotipata di donne sottomesse, complici, omertose, “anime morte” vaganti in quel mondo criminale e violento avvolte nel sudario di donne che hanno tradito se stesse e le loro figlie. Eppure era il 2014 e molte donne, mogli, figlie, sorelle, avevano incominciato a distruggere la forza dei legami di sangue su cui si regge la ’ndrangheta, denunciando e mandando in galera madri, padri, sorelle, fratelli, parenti. Di loro, mentre gli uomini parlavano di legalità, già allora scrivevo e parlavo di imprevisto della libertà femminile. A distanza di anni, uno dietro l’altro ecco arrivare due film, “A Chiara” di Jonas Carpignano e “Una femmina” dell’esordiente Francesco Costabile, in questi giorni nelle sale cinematografiche. Due giovani registi, due giovani uomini, che attraverso le protagoniste dei loro film, Chiara e Rosa, mostrano di saper vedere e raccontare quel desiderio di libertà trasmesso dalle madri alle figlie, dalle donne alle nuove generazioni in un continuum madre/i figlia/e, come hanno dimostrato anche le studentesse del liceo di Castrolibero. Il film “Una femmina”, ispirato alla vicenda di Maria Concetta Cacciola, si apre con una telefonata, vera, in cui la madre la convince a uscire dal programma di protezione, ritrattare e tornare a casa col ricatto di non farle vedere più la figlia Rosa, interpretata dalla brava esordiente Lina Siciliano, calabrese come il regista. Rosa non è solo la figlia di Maria Concetta ma è tutte quelle donne di famiglie mafiose che hanno lottato e lottano, alcune, come sua madre, pagando con la vita, per uscire dalla gabbia in cui padri, mariti, fratelli, le hanno rinchiuse e le madri per generazioni ne hanno custodite le chiavi. Il dramma dell’uccisione della madre, a cui lei da piccola aveva assistito, torna nei suoi incubi notturni e il ricordo delle sue ultime parole, “sogno un posto lontano dove ci siamo io e te”, la rende forte, combattiva, indomita, fiera. A un certo punto del film, non trovando una via d’uscita, Rosa sembra fare sua quella cultura mafiosa di odio, vendette e guerre tra famiglie mafiose, allontanandosi così dalla madre e rendendo vano il suo sacrificio. Ma quella cultura non le appartiene, come invece a sua nonna a cui lei, prima di lasciarla, ricorderà la sua complicità nell’uccisione della madre e la rinnegherà nel suo nome e in quello della figlia che porta in grembo: “È una femmina, questa non ti appartiene. A mia figlia un altro destino le voglio dare”. Rosa come Chiara parla poco ma il loro silenzio non è omertoso ma presa di coscienza, modificazione e consapevolezza di sé, da cui non si torna indietro come suggerisce anche il film di fronte al mafioso che crede di poter “domare” Rosa che ha “lo stesso fuoco” della madre. Per Rosa parla il suo corpo che soffre fino ad ammalarsi, si pietrifica davanti all’orrore dell’uccisione della madre, davanti alla sua tomba tenuta nascosta, senza nome per cancellarne anche la memoria, i suoi occhi lanciano sguardi infuocati di accusa e di sfida. Geniale e potente sul piano simbolico è la scena finale. Rosa scende in piazza in corteo con altre donne vestite tutte di nero, scena e musica da tragedia greca, e a un tratto tutte insieme si liberano del velo, segno di sottomissione, dolori e lutti, e lei leggera e spavalda va verso la sua libertà, ricongiungendosi così alla madre/alle madri, che ha/hanno lottato per cambiare il destino suo, di sua figlia/delle figlie, e quello di questa “mala terra”.
(Il Quotidiano del Sud, 25 febbraio 2022)