di Lea Meandri
Tanti e essenziali interrogativi attorno alla gestazione per altri dovrebbero indurre all’ascolto reciproco evitando semplificazioni guerresche
Sulla gestazione per altri (Gpa) mi è stato difficile finora intervenire, perché il dibattito in corso, soprattutto sui social network, si muove su quelle che considero, in senso lato, «logiche di guerra»: fronti in opposizione che si scambiano le stesse accuse –«indegnità», «resa al neoliberismo», al patriarcato, ecc.-, e che usano, allo stesso modo, la posizione di vittime per legittimarsi l’aggressione. Il femminismo ha conosciuto conflitti, divergenze teoriche e pratiche, divisioni, ma non ricordo che si sia mai ricorso con tanta facilità all’insulto e alla diffamazione per contrastare idee che non si condividono.
La Gpa va riconosciuta come una delle questioni più complesse, legate a quella che chiamiamo con nomi e significati diversi: autodeterminazione, scelta, libertà. Penso che siamo tutte d’accordo che il corpo femminile, come corpo erotico e procreativo, è stato per secoli sottoposto al dominio del sesso maschile, per cui il processo di riappropriazione e di nascita di una individualità femminile restituita alla sua interezza -corpo pensante-si colloca in un tempo molto vicino a noi. Difficile anche negare che le donne hanno forzatamente dovuto fare propria l’unica visione del mondo che si è imposta nella storia, per cui la liberazione dai modelli incorporati è lenta e contrastata da adattamenti secolari, ambivalenze, difesa di poteri sostitutivi, come quello di rendersi indispensabili all’altro (marito, fratello, figlio, ecc.).
La conseguenza è quella che abbiamo oggi sotto gli occhi: l’emancipazione dei corpi in quanto corpi, delle donne in quanto donne, con i segni, le attitudini le risorse che sono state assegnate loro «per natura». Che altro sono i «talenti femminili» di cui avrebbe bisogno l’economia in crisi? Se sono diventate soggetto, questo non impedisce di continuare a farsi oggetto; se non sono più vittime, non è detto per questo che non siano tentate di volgere a proprio vantaggio i requisiti per cui sono state un tempo messe in quella posizione: sessualità e procreazione.
Tutto questo preambolo per dire che oggi si dovrebbe non avere paura di fare ragionamenti complessi, contraddittori, distinguere tra situazioni dove la costrittività e lo sfruttamento sono inequivocabili -vale per la tratta come per la Gpa rispetto a donne in condizioni di estrema indigenza-, e quelle, invece, dove sono le donne stesse a decidere di generare per altri/e. Le testimonianze in questo senso non mancano-, sia che una donna lo faccia per denaro o come dono. Della prostituzione, e ancora più della procreazione, penso che non possano essere considerate un lavoro come un altro. Voglio continuare a interrogarle per ciò che sono state: cancellazione della donna come singolarità, riduzione a natura, materia, corpo, sessualità finalizzata al piacere dell’uomo, maternità come obbligo procreativo.
Riappropriarsi del proprio corpo vuol dire , se andiamo alla radice del problema, svincolarlo dall’ alienazione che ne è stata fatta: un corpo a cui altri ha dato nomi e funzioni. Si può mettere al mondo un figlio e decidere di farlo crescere da altre persone. Una volta che è nato, possono darvi accudimento genitori biologici o non biologici, adulti di un sesso e dell’altro. Diverso è accettare una gravidanza alienando fin dall’inizio l’essere che ti cresce dentro e che ti modifica fisicamente e psicologicamente. Per non parlare delle complicazioni imprevedibili che possono nascere anche al di fuori degli accordi presi in precedenza. Di qui le perplessità, le obiezioni che faccio alla Gpa e che voglio poter esprimere senza per questo approdare alla criminalizzazione delle donne che scelgono di farla.
Sono abituata a distinguere tra opportunità di scelta – oggi ampiamente favorita dai progressi delle biotecnologie – e libertà di scelta, in quanto continuo a dare al secondo termine il significato di liberazione da modelli interiorizzati, e perché penso che, sotto questo aspetto, valgano le pratiche del femminismo e non le censure e i provvedimenti punitivi. Le leggi per tenere sotto controllo lo sfruttamento, nella prostituzione come per la Gpa, ci sono e dobbiamo batterci perché siano applicate. Ma non sono disposta a fare delle donne che prendono decisioni sulla base di una loro scelta – qualunque sia la mia opinione nel merito – delle vittime o delle criminali.
C’è chi pensa che la Gpa possa essere una via d’uscita dal determinismo biologico, dalla centralità che ha avuto finora la figura della madre nel destino di genere della donna. Ho dubbi anche su questo: segmentando il processo generativo e affidandone i passaggi necessari a persone diverse -semi, ovuli, embrione, utero, ecc.-si può avere come esito la moltiplicazione dei ruoli genitoriali, alimentare fantasie, confronti, conflitti imprevedibili. A ciò va aggiunto il fatto che dei nove mesi della gravidanza poco è ancora stato detto dalle donne per sapere quali pensieri, sentimenti, fantasie, desideri e paure passano dentro quello stato di «parziale indistinzione» o «co-identità», come la chiama Elvio Fachinelli, tra la madre e il feto, una relazione particolarissima dal momento che avviene quando l’ «altro» non è ancora «un altro».
Con lucida visionarietà, scrive Agnese Seranis nel suo libro Smarrirsi in pensieri lunari (Graus Editore, Napoli 2007): «Eravamo due o uno? Cosa è mai diventato il mio corpo? Il mio corpo contiene pensieri che non so il mio corpo sogna sogni che io non sogno? Io sono io oppure sono lui? Io sono due e dove comincio e dove finisco perché lui sia lui? Ma io sono più forte di lui io ho più potere perché se volessi potrei ucciderlo. Ma chi ucciderei: lui o un po’ di me?».
Tanti e così essenziali interrogativi, che ruotano intorno alla Gpa, dovrebbero indurre quanto meno all’ascolto reciproco e ad evitare le semplificazioni guerresche.
(il manifesto 20 giugno 2017)