4 Aprile 2022
La Stampa

Ascoltare Cassandra

di Giuseppe Culicchia


«L’orrore… l’orrore». Così Mistah Kurtz in Cuore di tenebra di Conrad, poi trasformato in colonnello Kurtz nell’Apocalypse Now di Coppola. La guerra è orrore, almeno su questo siamo tutti d’accordo. Eppure, la cultura occidentale non può prescindere dall’Iliade di Omero, poema epico nato da una guerra con le sue stragi, le sue vittime e i suoi eroi. Perché? Forse perché, come sosteneva Hemingway, la guerra fa venire alla luce il meglio e il peggio degli esseri umani? Ma come si racconta l’orrore di una guerra?

L’autore di Addio alle armi, volontario nel 1917 sul fronte del Carso e poi reporter chiamato a raccontare la guerra greco-turca, la guerra civile spagnola e la Seconda guerra mondiale, ne sapeva qualcosa. E non a caso le tre pagine di Vecchio al ponte, uno dei suoi Quarantanove racconti, restano talmente perfette da valere per tutte le guerre: potrebbero essere ambientate nell’Ucraina di oggi come in Siria o in Afghanistan, in Iraq o Jugoslavia.

Certo, Hemingway è Hemingway. Ma dalla sua non aveva soltanto il talento. Lui, e con lui gli altri inviati speciali sui vari fronti delle guerre novecentesche, non erano “embedded”, come usa ormai almeno dall’operazione Desert Storm. Non erano tenuti a seguire le indicazioni dell’esercito di turno. Si spingevano fino in prima linea a rischio della vita, come il povero Brent Renaud a Irpin, e raccontavano ciò che vedevano con i loro occhi in un’epoca in cui, prima di permettere ai giornalisti di fare il loro mestiere, il terreno non veniva ripulito dai cadaveri. Cosa che oggi è la norma. O meglio: era la norma. Il conflitto in Ucraina, infatti, ci ha riportati indietro nel tempo. Ora che a mietere vittime civili sono i russi, possiamo di nuovo vedere senza censure preventive l’orrore della guerra come al tempo del Vietnam, quando la foto del corpo bruciato dal napalm di Kim Phúc, la bambina di nove anni in fuga da un villaggio bombardato, si rivelò decisiva per mobilitare l’opinione pubblica Usa in senso pacifista. Come ricordiamo o dovremmo ricordare, non è stato così in occasione di altri conflitti più o meno recenti: lì dove a mietere vittime erano gli occidentali, a cominciare dal massacro di Falluja, le immagini che arrivavano fino a noi venivano ripulite, proprio come ripulito era il linguaggio usato per riportare ciò che stava accadendo al di fuori della civile Europa. In quelle guerre, raccontate magistralmente da Brian Turner in La mia vita è un paese straniero (lo scrittore americano vi partecipò come soldato), le vittime civili erano definite danni collaterali. Le bombe, intelligenti. I resistenti, terroristi. Le torture, tecniche avanzate d’interrogatorio.

Da parte mia, credo che uno dei problemi che ci pone l’orrore di questi giorni abbia a che vedere con il nostro modo di confrontarci con la guerra in generale, con questa guerra in particolare e per l’appunto con il nostro modo di raccontarla. Certe reazioni ricordano il cane di Pavlov. Una su tutte: il villain (“il cattivo”, n.d.r.) di turno, incarnato stavolta da Putin – e ci mancherebbe: fermo restando che si tratta di un Cattivo con cui fino a ieri si facevano affari – è l’ennesimo nuovo Hitler. Tocca a tutti, prima o poi. Tra i nuovi Hitler basti citare in ordine sparso Saddam Hussein, Osama Bin Laden, Kim Jong Un, Mahmud Ahmadinejad. Questi paragoni ci aiutano a comprendere epoche e realtà così diverse? Verrebbero fatti da chi di mestiere fa lo storico e dunque non usa la Storia tanto disinvoltamente? Il punto è che al netto della propaganda – che contraddistingue ogni guerra e che come sappiamo o dovremmo sapere viene ampiamente usata da entrambe le parti – la razionalità andrebbe privilegiata rispetto alle emozioni. Cosa certo non facile, di fronte alle immagini dell’orrore, ma necessaria: specie oggi che ci troviamo al cospetto di quella che potrebbe davvero essere l’ultima guerra. Non perché dopo l’Ucraina la nostra specie possa rinunciare a scannarsi, ma perché questa volta le armi di distruzione di massa (che malgrado non esistessero, vennero evocate e usate come pretesto per scatenare la seconda guerra del Golfo) sono ampiamente disponibili, visti i mostruosi arsenali nucleari di Russia e Nato. Ecco dunque profilarsi un tragico remake del Dottor Stranamore, quell’incubo nucleare che toglie il sonno a tanti. Un incubo che avevamo rimosso, forse irretiti dall’ottimistica previsione di Francis Fukuyama sulla presunta fine della Storia, e che ha portato molti ad abbracciare posizioni pacifiste. Ecco: per tornare al doppio standard di cui sopra, si pensi a come i pacifisti vengono portati a esempio se sono russi – il che è comprensibile, anzi doveroso, visto il trattamento che ricevono in patria – salvo essere sbeffeggiati o addirittura accusati di connivenza con il nemico a casa nostra.

E che dire della nonchalance con cui in genere si è sorvolato sul discorso presso il Consiglio Atlantico in cui, nel 1997, l’attuale presidente americano sosteneva che l’espansione della Nato avrebbe provocato una reazione da parte della Russia? Chiunque osi avventurarsi su questo terreno, di fatto portandosi sulle orme di quel Biden, viene immediatamente additato come filo-putiniano: se ci pensate, è come accusare di filo-hitlerismo tutti i libri di Storia in cui si spiega come la Seconda guerra mondiale sia figlia dell’umiliazione patita dalla Germania in seguito al trattato di Versailles. Certo, è più facile relegare Hitler e Putin nel girone dei pazzi. Ma non è mai una buona idea umiliare un grande Paese dopo averlo sconfitto, se si vuole evitare che la Storia dopo essere stata tragedia si ripeta nuovamente come tale, e non come farsa. Viene dunque in mente Cassandra, il fortunato romanzo scritto dalla berlinese Christa Wolf quando, prima della caduta del Muro, russi e americani schieravano in Europa i loro eserciti e le rispettive testate nucleari. Come nel poema omerico, la veggente implora Priamo, il padre accecato dal meccanismo inesorabile della guerra, di fermarsi. Vede profilarsi la rovina della sua città, ma non viene ascoltata. Lei sola invoca la pace, e dunque per forza di cose il negoziato con gli Achei invasori, perché sa che rinunciarvi – scegliendo di agire sulla scorta delle emozioni anziché della ragione – comporterà la completa distruzione di Troia.

Limitarsi a sperare che il mondo così come lo conosciamo non debba sparire tramutandosi nella waste land immaginata da Cormac McCarthy nel suo La strada non basta. Spiace dirlo, ma oggi più che mai è il momento di ascoltare Cassandra.


(La Stampa, 4 aprile 2022)

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