3 Novembre 2019
Il Foglio

Bigenitorialità, un’altra parola per imbrogliare

di Eugenia Roccella


Da un po’ di tempo circola sempre più spesso una parola tipica di quella cultura postmoderna che sta smontando, pezzo per pezzo, i fondamenti dell’esperienza umana. La parola è bigenitorialità. In Brianza si organizza persino un festival della bigenitorialità, giunto ormai alla terza edizione. Apparentemente si tratta di ribadire che per un bambino sono fondamentali sia la mamma che il papà, ed è in questa accezione che in ambito giuridico si cita il “principio di bigenitorialità”. Ma se così fosse, basterebbe un vocabolo più antico, genitorialità: il prefisso “bi” è superfluo, i genitori da sempre sono due, di sesso diverso, almeno se si ricorre alla procreazione secondo lo sperimentato metodo naturale, che resta ancora il più diffuso.

Bigenitorialità è invece un’espressione che porta con sé l’opposto, la dissoluzione di maternità e paternità, lo sbriciolamento di quel che resta del concetto di famiglia. Il termine si diffonde dopo l’espansione delle nuove tecniche procreative, che moltiplicano e frantumano il ruolo genitoriale, costringendo ad aggiungere specificazioni e aggettivi. Di mamma non ce n’è più una sola, le figure materne possono essere, ad oggi, ben cinque. Bisogna distinguere la madre mitocondriale dalla fornitrice di ovociti, quella sociale dalla gestante, e così via. Per l’uomo è un po’ più semplice, dato che i papà possono essere solo un paio, quello che fornisce il seme e quello che concretamente crescerà il bambino. La genitorialità multipla richiede il prefisso: è monogenitorialità quando il committente, maschio o femmina, è unico, “bi”, o “tri” quando le figure coinvolte in varie combinazioni sono due o più.

Con la procreazione artificiale avere un figlio diventa un affare di medici, laboratori, biobanche, avvocati, organizzazioni transnazionali, compravendite (di gameti) e affitti (di uteri) e tutto il complesso meccanismo, che comporta passaggi di denaro anche ingenti, ha assoluta necessità di essere regolato da patti dettagliati e precisi, con annesse penali. È la centralità del contratto, infatti, ancora più del ricorso al mercato, che caratterizza la nuova genitorialità. Il figlio non è più un dono, ma un diritto di ogni individuo adulto – un diritto “incoercibile”, ha sentenziato la nostra Corte costituzionale – che si può esercitare quando e come si vuole, e di cui poi è ovvio si voglia fruire pienamente, secondo i termini di esigibilità stabiliti appunto dal contratto.

In Italia la legge del 2006 che ha istituito l’affido condiviso, ed è spesso richiamata da chi oggi propugna la bigenitorialità, afferma soltanto, e giustamente, il «diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori». Il concetto di bigenitorialità è stato elaborato e promosso successivamente, da giuristi e associazioni molto attive, capaci di diffonderlo nel mondo accademico, nei media, nei tribunali e infine nel Parlamento. Qui, però, il suo successo ha subito una battuta d’arresto.

Il disegno di legge del senatore leghista Pillon sul cosiddetto “affido condiviso” (ma bisognerebbe parlare, al contrario, di “affido suddiviso”) è stata lanciata con entusiasmo, sospesa con imbarazzo e attualmente accantonata. L’idea che ispira il testo, in linea con le teorie sull’identità sessuale indifferenziata e fluida, è che il ruolo materno e quello paterno siano uguali e intercambiabili. C’è dietro una concezione del figlio come l’ultimo, forse il più prezioso, diritto individuale, di cui l’individuo padre e l’individuo madre devono poter godere allo stesso modo, a metà. Un concetto astratto, costruito su un essere umano gender neutral, che non genera, non allatta, è indifferenziato e privo di competenze materne o paterne. Un mammo, o una papà, i cui compiti sono, ovviamente, rigidamente disciplinati da un “piano genitoriale”. Non c’è più nemmeno l’ombra di quella che fu una famiglia, che la separazione o il divorzio possono disfare ma non cancellare; c’è un sistema del tutto nuovo, la genitorialità fai da te, in cui l’interesse del bambino viene ignorato o usato come pretesto per privilegiare i desideri, gli interessi, i rancori degli adulti.

Bigenitorialità è più o meno la traduzione dell’inglese coparenting, una formula che sta prendendo piede nel mondo anglosassone e che è costruita proprio sull’idea che il figlio non è il frutto di una relazione tra un uomo e una donna, ma la realizzazione di un desiderio individuale. Se però voglio condividere le responsabilità e il peso economico di un bimbo, posso farlo in modo burocratico e asettico, escludendo il rapporto di coppia, affidando tutto a società di intermediazione e a consulenti legali. Per spiegare cosa sia il coparenting è meglio fare un esempio concreto. Una donna vorrebbe un figlio, ma il marito, o il compagno, non è d’accordo. La coppia però funziona: perché farla scoppiare? La signora (che potrebbe invece essere una donna sola che vuole rimanere tale, o un’omosessuale) si rivolge a un’agenzia di coparenting, che cercherà qualcuno per svolgere il compito genitoriale insieme a lei, ma senza la pretesa di instaurare una relazione. Per cominciare, bisogna compilare un modulo: che cogenitore desidera? Dello stesso sesso o di sesso diverso? Che abiti vicino o lontano, sia single o abbia un compagno/a? Quali sono le richieste su religione, stile di vita, livello di reddito e di istruzione? Il questionario proposto dalle agenzie è a tratti surreale, ma l’indagine è molto accurata. Una volta trovato il cogenitore, e stabilito come produrre il bambino (per esempio: deve essere legato geneticamente a uno dei due, a tutti e due, a nessuno?), si pongono nuove domande, altrettanto numerose, sull’educazione del figlio. Naturalmente si stende un contratto molto dettagliato su come si suddividono le spese, quanto tempo il piccolo passerà con l’uno e con l’altro, ecc. Il coparenting viene definito anche come “separazione senza matrimonio”, ed è qui, infatti, che la proposta Pillon approda, a una separazione che azzeri il senso del matrimonio, che non lasci residui di quella che fu una famiglia. La condivisione è solo nel titolo della legge («Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità»), in realtà il ddl mira a scindere e non a unire, a far sì che ogni genitore possa esercitare la sua responsabilità senza rapporti con l’altro. Suddividiamo tutto, e ognuno per la sua strada. E il bambino? Come crescerà, sballottato tra cogenitori che si ignorano, senza più una casa propria e un contesto quotidiano abituale e rassicurante? Quante storie, il bambino è un diritto degli adulti, no?


(Il Foglio, 3 novembre 2019)

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