13 Gennaio 2023
la Repubblica

Cambiare le adozioni per tutelare gli orfani dei femminicidi

di Gianluca Di Feo


La legge sulle adozioni va rivista, per tutelare i casi più drammatici di tutti: gli orfani dei femminicidi. Figli che sono due volte vittime e che in caso di adozione sarebbero costretti a interrompere qualsiasi rapporto affettivo con la nonna e gli zii: perderebbero l’unico contatto con quello che resta della loro famiglia, subendo un’ulteriore ferita psicologica. Ma allo stesso tempo hanno bisogno di genitori in grado di aiutarli a crescere: l’unica strada è un’adozione piena, che non tagli i ponti con il passato ma permetta di mantenere la frequentazione con i parenti. Oggi questo è vietato. E la Cassazione si è rivolta alla Consulta, chiedendo di valutare la tenuta costituzionale di questo divieto «in un contesto sociale profondamente mutato, dove la recisione dei legami con i nuclei familiari originari non è sempre criterio adeguato per fornire una tutela sostitutiva ed effettiva alle situazioni generate da forme di violenza familiare».

La prima sezione civile della Suprema Corte, presieduta da Maria Acierno, si è pronunciata su una vicenda terribile: il destino di due bambini rimasti soli perché il padre ha assassinato la madre. L’uomo era pachistano, la donna italiana: Alì all’epoca aveva pochi mesi mentre Bilal, di quasi tre anni, ha assistito al delitto. I nomi ovviamente non sono reali. Il Comune lombardo che è stato nominato tutore dei piccoli, assistito dall’avvocata Maria Grazia Di Nella, assieme ai magistrati e ai servizi sociali ha cercato in tutti i modi di definire un percorso per il loro futuro. I bambini sono affezionati alla nonna materna, che però non è in grado di farsene carico. Sono stati così affidati allo zio del padre, che vive nel Regno Unito, studiando come inserirli in una famiglia allargata assieme al fratello del genitore, che ha altri figli. Ma è emerso che la soluzione non poteva funzionare. «Le criticità principali di zio e prozio – scrivono i giudici – consistono nell’incapacità di accogliere gli aspetti depressivi dei bambini e di riferirli al trauma, cercando di porre fine in fretta ai momenti di crisi riportando ad altro le cause». La rimozione del dramma non gli avrebbe permesso di affrontarlo.

Allora la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto che lo strumento più adeguato alla tutela di Alì e Bilal sia l’adozione legittimante. Tuttavia, poiché i bambini «conservano una relazione significativa con la nonna ed è nel loro interesse mantenere in futuro i rapporti con i parenti paterni, che hanno dimostrato affetto e fanno parte della loro storia personale, anche in funzione dell’elaborazione del trauma che richiede non negazione ma rivisitazione in tempi e strumenti» la Corte ha considerato «nel prevalente interesse dei minori conservare tali relazioni, attraverso l’intervento dei servizi sociali che dovranno stabilire tempi e modalità d’incontri nel rispetto della privacy dei genitori adottivi e con la massima protezione dei bambini da interferenze esterne dannose per il loro benessere psico-fisico». Una formula aperta che la legge del 1983 non permette: con l’adozione legittimante il passato dei bambini viene spazzato via. E questo – sostiene la Suprema Corte – va contro la Costituzione per vari motivi, ma soprattutto perché nega la centralità dell’interesse del minore. «Occorre evitare – ha sottolineato il pg della Cassazione – che il trauma derivato dalla perdita di entrambi i genitori diventi ancora più radicato con la definitiva recisione di legami con importanti figure di riferimento peri il loro sviluppo psicologico».

«Questa ordinanza ha scalfito la graniticità della legge sulle adozioni – commenta Maria Grazia Di Nella, difensora dei due piccoli –. Il nostro diritto è vivo e cambia con la trasformazione della società_ la Consulta è chiamata adesso a colmare la lacuna del legislatore. Inoltre la scelta della Cassazione è al passo con i tempi: oggi i bambini hanno accesso alle informazioni, si confrontano con la loro storia e l’avrebbero scoperta senza essere accompagnati né assistiti. Lo dimostra il numero di fallimenti  adottivi, soprattutto in quei ragazzi che hanno peso le origini e sono stati sradicati dal loro ambiente: a dodici anni cominciano a voler sapere. Questo ci fa comprendere le loro esigenze, che non possono più venire negate».


(la Repubblica, 13 gennaio 2023)

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