24 Aprile 2022
La Stampa

Cara Marzano, ti spiego perché l’utero in affitto non è accettabile

di Lucetta Scaraffia


È bastato che i partiti di destra depositassero un progetto di legge, in realtà piuttosto infelice – come può l’Italia da sola definire crimine internazionale l’affitto dell’utero? – che subito scattasse una polemica fondata sulla logica mutilante della polarizzazione, per cui dentro ognuno dei due schieramenti è ammesso solo il più rigido allineamento.

Non è facile avanzare critiche libere e non ideologiche sulla pratica dell’utero in affitto. Come succede del resto per tutte le altre circostanze odierne in cui viene prospettato un allargamento dei diritti individuali, un’operazione ritenuta da molti positiva sempre e in ogni caso anche se applicata a diritti come il “diritto a un figlio”: diritti sulla cui vera esistenza come tali è lecito nutrire dubbi fondatissimi. Infatti chi in queste situazioni si dichiara contrario e osa sollevare delle critiche viene subito stigmatizzato come un ottuso conservatore, per giunta “cattivo”, animato da scarsa comprensione per il prossimo. Sicché la complessità morale alla quale egli vorrebbe dare voce, che è nelle cose, finisce per essere derisa e vilipesa da una certezza morale dai toni arroganti nella quale i fatti sono sostituiti dai sentimenti. Il dolore di una donna che non può avere figli, la speranza di un’altra che affittando l’utero può aiutare la famiglia: questi sono i sentimenti “buoni” che dovrebbero cancellare dei fatti che buoni invece non sono.

Bisogna cominciare con il dire che il rapporto fra le due mamme (quella che prende in affitto e quella che affitta) – se si possono chiamare così – non è mai diretto. È mediato da agenzie internazionali che forniscono assistenza medica e legale, ovviamente sempre orientata a favore di chi le paga, cioè il committente. Agenzie costose, per cui in generale alla madre surrogata arriva ben poco della cifra spesa dai committenti. Il rapporto presentato al Parlamento europeo nel 2016 da Petra de Sutter denuncia molti degli aspetti coercitivi del contratto di surrogazione: tanto è vero che chiede regole più severe nonché un sostegno psicologico per le madri surrogate. Possiamo allora domandarci: come mai tutto questo sarebbe necessario, se si tratta di libera scelta?

Bisogna poi aver presente che per le donne che affittano il proprio utero questa pratica è dannosa, in primo luogo fisicamente. Infatti, anche se la loro “prestazione d’opera” viene sempre presentata come un percorso naturale, non è per nulla così. Dal punto di vista medico infatti non solo il prelievo di ovuli – qualora esso avvenga dalla madre surrogata – ma anche il trasferimento nel suo utero di un embrione altrui richiede cure costanti. La futura madre deve dunque sottoporsi a cure ormonali molto pesanti già settimane prima del trasferimento, cure che continueranno per mesi al fine di evitare aborti spontanei.

Abbiamo idea di cosa significa? Tutta l’operazione è nel complesso molto difficile e presenta un tasso di riuscita bassissimo, che non supera il venti per cento. Spesso va ripetuta più volte. Quanti sanno che queste donne arrivano a essere sottoposte anche a dieci iniezioni al giorno? Quanti sanno che la stimolazione ovarica e quella ormonale possono essere causa di tumori? Se poi si dà il caso che attecchisca un numero di embrioni superiore a quello desiderato, allora la madre surrogata dovrà necessariamente essere sottoposta ad aborto selettivo. Infatti, per contratto essa è priva di ogni potere nei confronti di ciò che sta dentro di lei: e dunque se per caso cambiasse idea, e volesse rinunciare alla gravidanza, non potrebbe. L’accordo contrattuale infatti anticipa la proprietà del feto ai committenti anche prima della nascita.

Tuttavia, anche se queste donne fossero libere di decidere, anche se avessero deciso davvero nella più completa libertà di vendere l’utero per un proprio progetto, rimarrebbe sempre una grande, inquietante domanda intorno a questa situazione: qual è il travaglio emotivo, il turbamento, di queste donne mentre sentono crescere dentro di sé una vita con la quale dovranno rescindere immediatamente ogni legame? Non a caso si cerca di controllare questo effetto scegliendo sempre donne che hanno già avuto figli, e questo già rivela la consapevolezza che l’abbandono di una creatura tenuta un grembo per nove mesi non è per nulla facile.

La gravidanza è un processo complesso. Se da una parte l’epigenetica ci ha reso consapevoli che lo scambio genetico non finisce con il momento del concepimento, ma continua nell’utero, durante i mesi della gravidanza, la psicologia e l’osservazione pediatrica hanno approfondito i vari modi in cui, già durante la gravidanza, il rapporto fra madre e figlio è fonte di impressioni indelebili e importanti. Il corpo delle donne non è come un forno in cui si mette a cuocere una torta.

Il distacco dalla madre che porta nel suo ventre il bambino è un trauma, sempre. La cosa che a me pare terribile è che mentre per i casi dei bambini dati in adozione si riconosce senza problemi il trauma che per essi ha rappresentato l’abbandono da parte della madre naturale, e si riconosce senza problemi che anche per la madre costretta ad abbandonarlo si tratti di una scelta dolorosissima, nel caso dell’utero in affitto viceversa ciò non si vuole vedere, anzi si nega che si tratti di un trauma in questo caso addirittura programmato. Di un trauma prodotto appositamente per rendere “felici” due adulti egoisti, che, non volendo adottare un bambino abbandonato, ne vogliono uno che abbia i loro geni, che porti il loro indelebile marchio di fabbrica. In questi casi, cara Michela Marzano, si tratta come vedi precisamente della ricerca a tutti i costi di un legame biologico, anche se tu scrivi che «la genitorialità vera ha ben poco a che vedere con il Dna o con il sangue».

Come se la misura del nostro comportamento, delle nostre scelte, dovesse essere solo l’intensità del desiderio, e tutte le altre pur necessarie componenti di ogni scelta che voglia essere d’amore – cioè il senso di responsabilità, l’attenzione al bene dell’altro prima che al bene proprio, la rinuncia e il sacrificio – non contassero nulla.

Ma è bene che si sappia quanto invece passa spesso sotto silenzio: la condanna della pratica dell’utero in affitto non viene solo da vecchie conservatrici bigotte, viene da gran parte del femminismo di tutto il mondo. Da una moltitudine di donne, madri e non, che non hanno dimenticato, non possono dimenticare, cosa sia il dolore, né cosa voglia dire l’amore.


(La Stampa, 24 aprile 2022)

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