di Ida Dominijanni
Ci vollero tre anni e una maggioranza di sette giudici a favore e due contrari per approdare, il 22 gennaio 1973, alla sentenza Roe vs Wade, che rese l’aborto praticabile in tutti gli Stati Uniti ancorando al principio della privacy sancito dal 14° emendamento della costituzione l’autodeterminazione della donna sul proprio corpo e conseguentemente la sua libertà di scegliere se portare o non portare a termine una gravidanza. Ci sono voluti cinquant’anni e una maggioranza di sei giudici a tre per cancellare quella sentenza e con essa la copertura costituzionale della possibilità di abortire, rendendola disponibile alla decisione – e dunque alla maggioranza di governo – dei singoli stati americani e sottraendola all’autodeterminazione femminile. Significa che la possibilità di abortire dipenderà dallo stato in cui si vive, o dalla possibilità, innanzitutto economica, di recarsi in un altro stato. Da un diritto costituzionalmente protetto a livello federale si passa alla normativa dei singoli stati, e all’arbitrio delle maggioranze politiche di ciascuna legislatura.
Nel corso di questi cinquant’anni l’aborto non ha mai smesso di essere, negli Stati Uniti come in Italia e ovunque nel mondo, oggetto di una incessante guerra culturale fra sostenitori e avversari della libertà di scelta delle donne. La destra tradizionalista ha fatto per decenni dell’abbattimento del diritto di abortire la sua principale bandiera, ma è solo grazie all’arroganza con cui Trump ha ridisegnato a propria immagine e somiglianza il profilo della corte suprema, nominando tre giudici ultraconservatori, che infine è riuscita a sfondare. E già promette di estendere alla contraccezione, alle convivenze e al matrimonio omosessuale il principio “originalista” della sentenza antiabortista, ovvero un’interpretazione restrittiva della costituzione, secondo la quale quest’ultima va applicata in base all’intento e al contesto originari in cui nacque e che non prevedevano né l’aborto né altri diritti successivi. Il fatto dunque è massimamente sintomatico dello stato di anomia in cui la democrazia americana di ritrova dopo il terremoto trumpiano, come notano oggi tutti i quotidiani americani e italiani, connettendolo giustamente al più generale attacco alle istituzioni e alla più generale guerriglia civile innescati da Trump, nonché alle storture (quella del dispositivo elettorale in primis) di un sistema che sempre più palesemente favorisce la minoranza suprematista bianca, repubblicana e tradizionalista. Ma non si tratta solo di questo.
Il fatto è che in tutto il mondo la conflittualità geopolitica e sociale sta cercando una valvola di sfogo in una stretta del controllo sul corpo, la sessualità e la libertà femminili. Più l’ordine patriarcale traballa e degenera, più si vendica tentando di ripristinare il dominio maschile sulle donne: è un elemento centrale e cruciale, non accessorio o marginale, della crisi di civiltà che stiamo attraversando. Ed è un dispositivo che si attiva, sia pure a diverse gradazioni, a tutte le latitudini e sotto tutti i regimi politici, autocratici e democratici, laici e fondamentalisti. Che la libertà delle scelte riproduttive venga messa in discussione con argomenti non dissimili da quelli del patriarca russo Kirill proprio nella democrazia che in nome dei valori democratici sta combattendo una guerra per procura contro il regime autocratico russo suona dunque come una sonora smentita dell’ultima versione dello “scontro di civiltà” che anima e legittima la propaganda occidentale sulla guerra in Ucraina tentando di innalzare un nuovo muro fra “il mondo libero” occidentale e il dispotismo orientale. Avremmo preferito che questa sonora smentita non passasse sul corpo delle donne. Ma per gli autocrati e i tradizionalisti – esterni, come Kirill e Putin, e interni alle democrazie, come Trump e i suoi alti togati – si rivelerà un boomerang. C’è una legge storica fin qui mai smentita, ed è che dopo il femminismo novecentesco, sul piano della libertà riproduttiva le donne non arretrano. Non arretreremo neanche stavolta, come già dimostrano le manifestazioni che popolano le piazze americane, e presto potrebbero dilagare altrove attraversando le vecchie e le nuove cortine di ferro innalzate dagli uomini in guerra.
(Internazionale, 25 giugno 2022)