8 Aprile 2024
La Stampa

Ciechi davanti alla bellezza della nascita. Quella statua merita il centro di Milano

di Daniela Padoan


Dal latte materno veniamo” non deve essere consegnata alla clinica della maternità medicalizzata


In memoria della scultrice Vera Omodeo, scomparsa da pochi mesi, la famiglia ha offerto alla città di Milano una scultura in bronzo da lei realizzata negli anni Ottanta, dal titolo Dal latte materno veniamo. Si tratta di una figura femminile ad altezza naturale, i fianchi cinti da un peplo, il viso chinato a fissare con sguardo tenero e serio il bimbo che sta allattando. Ne è nato uno scandalo in un certo senso assonante con la pruderie che a fine Ottocento accolse il dipinto di Gustave Courbet L’origine del mondo, che notoriamente ritrae una vagina, transitato per la collezione privata di Jacques Lacan ed esposto al pubblico solo nel 1995 al Museo d’Orsay. Oggi è scandalosa non la sessualità ma la relazionalità del rapporto escludente tra madre e bambino, la cura che è nutrimento materiale e simbolico, la «lingua della nutrice» propria della donna che ci ha allattato e portato in braccio introducendoci alla vita, che Dante diceva necessaria a parlare di cose d’amore.

Tutto inizia con il parere negativo dato dalla commissione di esperti incaricata di valutare le proposte di collocazione di opere artistiche in spazi pubblici cittadini, un organismo introdotto nel 2015, ai tempi della giunta Pisapia, composto dai referenti della Commissione del paesaggio, della Soprintendenza di archeologia e belle arti, della Direzione cultura e dell’Area governo del territorio del Comune di Milano.

Un parere dato all’unanimità, si legge nel verbale della riunione tenuta in remoto lo scorso 5 marzo, in cui si è «discusso di come la scultura rappresenti valori certamente rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, tali da scoraggiarne l’inserimento nello spazio pubblico». Tanto da stabilire «che l’opera venga data in donazione a un Istituto privato (ad esempio un ospedale o un istituto religioso), all’interno del quale si maggiormente valorizzato il tema della maternità, qui espresso con sfumature squisitamente religiose».

Due frasi che si è indotti a leggere più volte, nel dubbio di non aver capito. L’allattamento materno, la nostra origine dalla madre, sarebbero riferimenti religiosi, non universalmente condivisibili, tali da scoraggiare l’inserimento nello spazio pubblico?

Vale la pena soffermarsi sull’accaduto uscendo dalla cronaca e dal suo utilizzo politico – il prevedibile attacco delle destre a difesa di una maternità ipostatizzata e retriva, l’intervento riparatorio del sindaco Sala, purtroppo risolto in una proposta che sembra non cogliere la questione simbolica in gioco, con la collocazione dell’opera nei giardini della clinica ostetrica Mangiagalli, consegnando dunque Dal latte materno veniamo al luogo della nascita medicalizzata che recentemente il Corriere della Sera ha chiamato «la fabbrica dei neonati», addirittura come messaggio contro la denatalità.

L’unanimità su una simile decisione non sarebbe stata possibile se la commissione non fosse partecipe di una comunità, di una koinè di parlanti, di un humus culturale che impone di riflettere sul senso del materno in un mondo che sembra diventato cieco alla bellezza, alla gratuità del puro accadimento della nascita, quasi che a contenere la generatività femminile fosse l’abbraccio secolare della religione, oppure la produzione di maternità al di là della madre. Eppure la maternità è quanto di più umano, e di più animale, ci sia. Quanto di più legato alla vita. E la vita non è religione, la vita è vita. Se la possibilità femminile di dar vita si trasforma in politiche della nascita, in ideologie della nascita, in tecniche della nascita, mettendo tra parentesi il nostro essere carne, corpi, animali, il nostro mondo sarà sempre più mortifero, incapace di proteggere la vita, perché sarà derealizzata, anche quella dei più piccoli, anche sotto le bombe, o in mare.

Mamma gorilla con il suo piccolo in braccio ci appare umana. Non religiosa, semplicemente materna, e nostra simile. Nella promiscuità sessuale dei primordi della nostra specie, secondo il giurista e antropologo Johann Jakob Bachofen, la discendenza matrilineare sarebbe stata all’origine di una società di diritto materno in cui vigeva la comunità dei beni, ma con l’instaurarsi del patriarcato, dunque della proprietà e del diritto positivo, il potere della generatività è stato sottratto alla donna, lasciandole l’aspetto biologico della gravidanza e del parto. Cosa farne – cosa ne farebbe la commissione – delle Mater matuta etrusche, delle Pomone romane, delle Grandi madri neolitiche e paleolitiche, delle Pachamama andine, di tutte le sculture di dee protettrici della nascita? E del simbolico materno agito in politica, a cominciare dalle Madri argentine di Plaza de Mayo che, dicendosi madri di tutti i desaparecidos e facendosi luogo di quella maternità, seppero sconfiggere una giunta golpista tra le più criminali? Cosa rispondere alle sopravvissute di Auschwitz quando, nella loro testimonianza, alcune affermano che la maggiore forma di resistenza al nazifascismo sia stata mettere al mondo figli, proprio perché si intendeva cancellare dal mondo loro e tutta la loro schiatta?

L’assunzione del materno è diventata una categoria politica laica che riguarda uomini e donne, madri e non madri, che prevede maternità concrete e maternità simboliche, non necessariamente di figli ma di idee, progetti, mondo.

In piazza Duse, dove era stata in origine prevista la collocazione della scultura, in risposta al parere negativo della commissione è nato un flashmob di protesta: donne che allattavano, liberamente, giocosamente. Sarebbe un bel segnale se Dal latte materno veniamo fosse collocata nel cuore di Milano, nel verde, tra le persone, i bambini, i gatti, come un messaggio di vita, affermazione di forza femminile, consapevolezza della nostra realtà di corpi non astratti ma in relazione.


(La Stampa, 8 aprile 2024)

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