di Marina Terragni
Due chiacchiere con un ragazzo gay ftm fidanzato con un uomo biologico gay. È nato donna ma è transitato a identità maschile omosessuale: insomma, è attratto sessualmente dai maschi, ma non da donna com’è nata. Gli piacciono in quanto uomo, identità acquisita.
Mi dice che fa fatica a stare fra le donne perché la cosa gli «causerebbe disforia di genere», riprecipitandolo in una certa confusione. Precisa di sentirsi estraneo alla questione “gay contro lesbiche” che sta dividendo nel mondo Lgbt. Per lui sono una cis-, ovvero una persona che sente il proprio il genere coerente con il proprio sesso di nascita. In quanto trans lui non ha niente contro i cis-, tutt’altro. Sono i queer che disprezzano i cis-, e in particolare le cis-, in quanto “supinamente accettanti” la conformità tra sesso biologico e identità di genere.
Il caleidoscopio mi frastorna. Mi tengo a quello che sento: la sua sensibilità, la fatica della sua esperienza umana, il mio rispetto. E la mia incapacità di trovare le parole, la mia incompetenza simbolica nel rappresentare questa vita in transito.
Però non mi soddisfa nemmeno lo sminuzzamento identitario, l’etichettatura frenetica e pulviscolare.
Gli dico che ogni persona è un unicum, «una piccola folla», come diceva Jung. È a questo che ci si dovrebbe attenere, senza ansia di stampigliare il codice a barre.
E vorrei abbracciarlo, per quello che è.
(Avvenire, 27 giugno 2017)