16 Settembre 2025
il manifesto

Com’è difficile parlare davvero per la pace

di Alberto Leiss


«Mentre le diplomazie votano “dichiarazioni di intenti” e “condanne”, i bulldozer avanzano».

Francesca Mannocchi ha descritto bene ieri su La Stampa la situazione reale sul campo a Gaza e in Cisgiordania: una realtà di violenza bellica (e ideologica) senza più limiti che rende ormai irrealistico parlare di “due popoli e due Stati”.

È certo positivo, aggiungo io, che si allarghi la condanna internazionale della condotta di Netanyahu, e che si moltiplichino i riconoscimenti allo “Stato palestinese”. Ma visto che nessuna azione concreta contro un uomo considerato criminale di guerra, al pari di Putin, dalla Corte penale internazionale viene decisa dalle nazioni che contano, il risultato sarà proprio quello annunciato dal premier israeliano e dai suoi ministri di estrema destra: “non ci sarà mai uno Stato palestinese. Questo posto è nostro”.

Per Giorgia Meloni – lo ha gridato rivolgendosi agli integralisti di Vox – «violenza e intolleranza stanno a sinistra, ma non ci intimidiranno, lotteremo per la libertà…». Non varrebbe la pena di parlarne se non fosse a capo del governo (che non riconosce lo Stato palestinese) e non facesse parte di un coro di fratelli che sono giunti a paragonare l’attuale scontro politico in Italia al tempo delle Br (un tempo in cui, va ricordato, si sono susseguite anche molte stragi e violenze di matrice neofascista). Così si soffia sul fuoco, ovviamente.

Ma anche a sinistra non tutte le parole pronunciate sulla violenza, in particolare dopo l’uccisione di Charlie Kirk, mi sono sembrate appropriate.

Ho letto con attenzione le spiegazioni di Odifreddi, e ascoltato con altrettanta attenzione il video di Saviano. Intellettuali così noti e seguiti non potevano evitare una frase equivocabile come: un conto è sparare a Luther King, un altro a Kirk? Oppure la condanna dell’uccisione dell’esponente Maga come un errore politico – la lotta armata non conviene mai – prima che come un atto disumano e contrario all’etica che dovremmo tutti condividere: non uccidere. Mai.

Le parole che dovremmo imparare a usare, noi che non imbracciamo armi, non abbiamo funzioni di governo, e possiamo “solo” rivolgerci alle menti altrui con il linguaggio e i nostri comportamenti, noi che siamo contro ogni guerra, e per una pace che non ignori la realtà necessaria del conflitto tra idee e interessi diversi e opposti, dobbiamo sapere che sono parole molto difficili. Ho messo tra virgolette quel “solo”, perché credo, come spesso si dice, che il potere della parola sia in realtà fortissimo.

Un confronto vero su questo dovrebbe aprirsi.

Intanto segnalo un documento che ne parla in modo interessante. È la “Carta dell’impegno per un mondo disarmato”, scritta dal movimento “10, 100, 1000 piazze di donne per la pace”, tra cui amiche femministe che dal momento dell’invasione dell’Ucraina hanno organizzato un presidio permanente a Palermo, pratica che si è estesa in molte altre città, e che sarà presente quest’anno alla marcia Perugia-Assisi.

«Il linguaggio bellico – vi si legge tra l’altro – permea notizie, leggi, discorsi. Alimenta l’idea che la guerra sia inevitabile, necessaria, legittima. Rivendichiamo una grammatica della pace, una grammatica della relazione, non della sopraffazione: parole che costruiscono senso, raccontano la vita, nominano l’ingiustizia, aprono immaginari. […] Nelle fratture del presente, siamo consapevoli che costruire la pace richiede una postura capace di sottrarsi alla logica binaria delle contrapposizioni, di non rispondere al conflitto con nuove esclusioni…».


(il manifesto, rubrica “In una parola”, 16 settembre 2025)

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