28 Aprile 2021
L'Espresso

«Con la scusa del virus il potere dà scacco all’istruzione e alla democrazia»

di Anna Bonalume


Le filosofe riconosciute nel dibattito politico sono rare, anzi si possono contare sulle dita di una mano. Barbara Stiegler, filosofa francese, professoressa all’Università di Bordeaux Montaigne, è una di queste. Dopo aver lavorato sulla filosofia tedesca e la biologia, e in particolare sul pensiero di Nietzsche, il tema del corpo e le filosofie della vita, si è rivolta alla filosofia politica. Dallo studio delle origini biologiche del neoliberismo è nato “Il faut s’adapter. Sur un nouvel impératif politique” (“Bisogna adattarsi. Intorno a un nuovo imperativo politico”) pubblicato da Gallimard nel 2019. La filosofa dimostra come i concetti chiave di Darwin siano alla guida di molti imperativi contemporanei: “adattarsi” per sopravvivere, seguire le “mutazioni”, prendere parte all’“evoluzione”.

Durante la pandemia, inoltre, Stiegler ha lavorato al pamphlet “La démocratie en pandémie” (“La democrazia in pandemia”), pubblicato di recente dallo stesso editore, nel quale analizza con grande lucidità le conseguenze sociali, sanitarie e linguistiche di questo anno trascorso tra pseudo-corsi su Zoom e riunioni a distanza. All’obbedienza alle misure sanitarie elaborate dal governo con l’ausilio di agenzie di consulenza private, l’autrice oppone la necessità di una resistenza sociale, fatta di condivisione ed elaborazione di nuove proposte per far fronte alla crisi che sta avanzando.

Nel saggio “Il faut s’adapter” mostra come categorie importate dalla biologia, come “evoluzione” e “adattamento”, siano riuscite a dominare gradualmente il campo politico contemporaneo. Come è avvenuta la fusione tra biologia e politica?

«Il vocabolario biologico dell’adattamento ha gradualmente invaso tutti i campi. È sorprendente, perché dopo la Seconda guerra mondiale si è posto il principio che la politica e la biologia dovessero assolutamente essere separate. Questa miscela colpevole è stata chiamata “darwinismo sociale”, l’idea che i più deboli debbano perire. Il che, tra l’altro, tradisce le idee di Darwin stesso sulle società umane. Dire che oggi, con Matteo Renzi o Emmanuel Macron, saremmo in una società governata dal darwinismo sociale non è del tutto esatto. Anche se le nostre società sono sempre più diseguali, il discorso ufficiale dei nostri governanti non rivendica mai chiaramente un’eliminazione dei più deboli, ma sostiene invece le “pari opportunità” e la “benevolenza” verso i più vulnerabili. Nella visione neoliberista che prevale in Francia e in Italia c’è una contraddizione nel lessico tra questo discorso a favore della vulnerabilità e l’uso del vocabolario darwiniano della competizione. È questo enigma che ha motivato la mia indagine e mi ha portato a studiare le fonti americane del neoliberismo».

E questo l’ha aiutata a risolvere l’enigma?

«Sì, perché ho scoperto che il neoliberismo ha attinto a fonti evoluzioniste, mentre riscopriva la necessità dello Stato e delle sue politiche pubbliche. Negli anni ’30, i liberali più lucidi decisero di abbandonare certe illusioni del liberismo classico, quelle che secondo loro avevano portato alla crisi del ’29. La prima di queste illusioni era la convinzione che la specie umana fosse perfettamente attrezzata per il mercato e che fosse sufficiente lasciar fare. La psicologia evoluzionista, al contrario, sosteneva che la specie umana era difettosa. La sua lunga storia evolutiva l’aveva adattata a comunità stabili e chiuse, e non poteva che essere mal adattata alle esigenze di un mondo globalizzato. L’intera agenda del neoliberismo è nata da questa diagnosi. Da allora le politiche pubbliche dello Stato neoliberista si sono poste l’obiettivo di trasformare la specie umana attraverso l’educazione, la salute e il diritto, per riadattarla alla concorrenza globale. Imponendo la concorrenza a tutti gli individui, compresi i malati, i disabili, i bambini e i disoccupati, lo Stato neoliberista ha cominciato a difendere le disuguaglianze, non più in nome della natura, come i darwinisti sociali, ma in nome di istituzioni pubbliche presentate come “benevole”, al servizio della giustizia e delle pari opportunità»

Nel suo libro “La democrazia in pandemia” lei parla di una “svolta ambulatoriale universale”, la conversione da una logica di stock a una logica di flusso. Che cosa intende?

«La nuova politica ospedaliera, che Stéphane Velut descrive bene nel suo libro “L’ospedale, una nuova industria”, consiste nel passare da un ospedale di stock a un ospedale di flusso. Un tempo i nosocomi erano strutture in cui si pazientava, si soggiornava e si rallentavano i ritmi, ora si è passati a una logica industriale in cui tutti i ritmi devono essere accelerati, i pazienti devono essere dimessi il più rapidamente possibile per aumentare il rendimento. Questo è il senso stesso della svolta ambulatoriale, che obbliga non solo il personale medico, ma il paziente stesso a diventare efficiente e competitivo, ovvero “attore e produttore di salute”. L’ospedale, il luogo che doveva essere ospitale per eccellenza è diventato radicalmente inospitale. Questa logica riguarda ora tutte le istituzioni della Repubblica. Quello che si sta imponendo ovunque è una svolta ambulatoriale universale, in cui gli “utenti”, che rischiano sempre di costituire degli stock in eccesso, sono, grazie alla tecnologia digitale, rimandati a casa e ridotti a flussi di connessione. Sotto la pressione dell’efficienza, tutte le istituzioni diventano inospitali e si convertono alla cultura della valutazione continua della performance».

All’inizio della crisi sanitaria ci è stato garantito che la “continuità educativa” sarebbe stata assicurata dai corsi via Zoom. Che effetto ha avuto questo nuovo dispositivo sui nostri sistemi educativi

«I corsi online hanno distrutto l’insegnamento come atto collettivo, negando ciò che era al centro dell’educazione: contribuire alla socializzazione, non solo attraverso il contatto tra pari, ma soprattutto attraverso la costituzione di una società che condivide il sapere sviluppato in comune. La finzione che accompagna questi dispositivi è che l’educazione possa essere ridotta a una semplice connessione tra due individui, tra un parlante che invia un messaggio predefinito e un ricevente che riceve passivamente questi contenuti prima di ripeterli in modo identico. Questa è la negazione stessa dell’educazione».

Che cos’è allora l’educazione?

«Si basa su due principi cardine: l’interazione tra studenti e quella tra insegnante e studenti: non si sa mai in anticipo cosa succederà. In un buon corso l’insegnante è spinto dal pubblico a perfezionare i suoi argomenti e a volte anche a rivederli. Se ne va con nuove domande e nuove idee, che nascono dalla resistenza attiva del suo pubblico, che legge nei volti e ritrova nelle domande. Se si leggono semplicemente gli appunti, o se si parla con una macchina che riproduce volti “congelati”, non può succedere nulla. L’insegnante esce da lì semplicemente svuotato. Oggi fare una lezione equivale a ricevere un contenuto preconfezionato, che esclude qualsiasi confronto collettivo sulla conoscenza. Una lezione che può essere tenuta sia “in presenza” sia “a distanza”, una coppia di parole tossiche perché rende il vero corso, quello che si tiene collettivamente, una semplice opzione, potenzialmente troppo costosa o lussuosa. Non verrebbe mai in mente a nessuno di parlare di una cena “in presenza” o di una festa “a distanza”. Ma è diventato possibile per un corso. Questa mutazione lessicale, che sta invadendo la mente di tutti, dimostra che la riflessione dei pedagogisti degli ultimi due secoli sull’atto educativo è stata spazzata via dal progetto neoliberista, quello di una riduzione dell’educazione alla capitalizzazione individuale di prestazioni e competenze in vista della sola competizione sociale. Al punto che la valutazione è diventata l’unica ossessione delle lezioni via Zoom».

Sembra che durante la pandemia abbiamo smesso di formare gli studenti e abbiamo invece iniziato a informarli…

«Il processo pedagogico è stato effettivamente interrotto, ma la discontinuità che ci è stata imposta è stata negata. Fin dallo scoppio della pandemia in Francia, dal 17 marzo 2020, ho ricevuto ogni giorno note dalla mia università sul nuovo “piano di continuità pedagogica”. Queste ingiunzioni verticali erano parte dei “piani di continuità delle attività” del governo, un prodotto inventato dal “risk management” (gestione del rischio, n.d.r.), un settore di studio molto influente nei dipartimenti governativi, che mira a garantire la continuità delle attività in caso di disastro sanitario, ecologico o terroristico. In inglese, questo si chiama “business continuity plan” e consiste nell’imporre alla popolazione l’idea che tutto deve continuare come prima. Il disastro, cioè, non deve essere un’occasione di rottura. Già il 17 marzo 2020 tutti i team pedagogici avrebbero dovuto riunirsi con urgenza per discutere della crisi ed elaborare insieme nuove idee per prendersi cura degli studenti. È successo il contrario. Ognuno è rimasto solo nel suo angolo, si è sottomesso a questi piani di “continuità” e ha cominciato ad assumere abitudini deleterie, chiudendosi nella propria logica senza alcuna discussione collettiva con colleghi e studenti. Zoom è stato poi imposto ovunque. L’università è stata trasformata in una grande macchina fredda e inerte, che invia messaggi fissi a qualche volto congelato».

La campagna per le elezioni presidenziali francesi, in programma ad aprile 2022, è già in corso. Durante le ultime elezioni i francesi sono stati costretti a scegliere tra “progressisti” e “populisti”. Cosa pensa di questa opposizione tra le forze del bene e del male? Non si rischia di banalizzare la democrazia?

«La divisione manichea del mondo in populisti e progressisti non è stata affatto superata. Si è semplicemente spostata su una nuova frattura. Il manicheismo macronista del 2017 si è giocato intorno alla globalizzazione: o si era per le frontiere aperte e quindi progressisti, o per chiuderle e quindi populisti. Ma l’epidemia ha complicato la questione. Il discorso dominante ha dovuto riconoscere a fatica che la globalizzazione poteva creare dei problemi, che la sovranità industriale e scientifica doveva essere ripristinata, che le frontiere dovevano essere in parte chiuse. Così lo stesso manicheismo è stato riciclato su altri temi e spostato sull’adesione alle linee guida sanitarie, alla vita digitalizzata e al “distanziamento sociale”: altri modi di perseguire la globalizzazione senza muoversi da casa, accelerando il dominio senza condivisione del capitalismo digitale delle piattaforme e delle applicazioni. Da lì, quelli che erano chiamati “populisti” sono diventati, durante la pandemia, i “complottisti della rassicurazione” che contestavano questa vita digitalizzata. Mentre i “progressisti” erano quelli che si sottomettevano docilmente alla dottrina sanitaria. Il conflitto si è spostato sul campo epistemico, cioè del rapporto con la conoscenza. Non è più la pseudo-conoscenza economica della globalizzazione felice che ha continuato a strutturare l’opposizione tra bene e male, ma un sapere medico strumentalizzato, messo al servizio del distanziamento sociale e della digitalizzazione di tutte le nostre attività. Ovviamente questo è un formidabile ostacolo alla democrazia, perché proibisce in anticipo qualsiasi dibattito su un progetto comune e, al contrario, incoraggia la secessione, minacciando l’unità del corpo politico».


(L’Espresso, 28 aprile 2021)

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