15 Giugno 2022
La Stampa

Contro la denatalità serve più libertà femminile

di Marina Terragni


Vento americano in poppa – a giorni la Corte Suprema Usa potrebbe abolire la storica sentenza Roe vs Wade e ricacciare l’aborto nella clandestinità- i pro-life italiani cavalcano l’onda e vanno all’attacco della legge 194 che dal 1978 regola l’interruzione di gravidanza in Italia. Obiettivo abolizionista tenuto sotto traccia: da una parte si assicura di voler dialogare con il femminismo e i pro-choice, dall’altro lo si nega parlando di legge “integralmente iniqua” e andando allo scontro frontale. La ragione dell’ambiguità è evidente: i promotori della Manifestazione per la Vita sanno bene di non avere interlocutori politici. Non c’è un solo partito che si intesterebbe la battaglia, nemmeno a destra: Giorgia Meloni si è più volte espressa a sostegno della legge e anche Salvini ha chiarito che «la 194 non si tocca». I pro-life dicono però di non volersi arrendere, paragonandosi ai «movimenti antischiavisti» che ai loro inizi non avevano chance di affermazione.

Se non ci fosse la 194, questo l’argomento cardine, non ci sarebbero aborti. Leggi: le donne sarebbero costrette a portare avanti la gravidanza o a rischiare la pelle, their choice. Che per ogni nascita serva il sì di una donna, che il suo consenso sia inaggirabile è un boccone che ai pro-life proprio non va giù, quando perfino l’Angelo restò in attesa del fiat di Maria dopo averle annunciato di essere stata prescelta. Non c’è modo di obbligare una donna a diventare madre: è lei a decidere, salvo costrizioni. Puoi evitare che crepi, però, se intende interrompere la gravidanza: non è poco, a meno che non si ritenga che farla crepare sia la giusta punizione.

Altro argomento dei pro-life: la denatalità. Come se le nascite ai minimi storici – tasso di fecondità all’1.24, età sempre più avanzata al primo parto, un declino demografico che allarma perfino Elon Musk – si potesse spiegare con il fatto che le donne abortiscono in sicurezza. Non sta in piedi. La denatalità e almeno una parte delle interruzioni di gravidanza semmai possono essere ugualmente ricondotte alla variegata, multiforme, resistentissima misoginia italiana, sulla cui ferocia non c’è da dilungarsi.

Dagli stop sul lavoro – la gravidanza di una dipendente è ormai vista come un atto di luddismo – alla cronica carenza di servizi, alla solitudine in cui si è abbandonate: quel «villaggio» che servirebbe a fare crescere ogni bambino oggi non esiste più. Tutto concorre a dare forma a una mostruosa ingratitudine nei confronti delle donne che dicono «sì» e a una svalorizzazione radicale della funzione materna, ormai intesa come esercizio di un lusso privato. Il naturale desiderio di mettere al mondo un bambino deve dribblare troppi ostacoli e finisce per spegnersi. Che cosa intendono fare i pro-life perché chi vuole essere madre – non tutte lo vogliono – possa diventarlo? Contro la denatalità serve più libertà femminile, non meno. La prova più eclatante: nelle rare enclavi matrilineari sopravvissute, organizzate intorno alla genealogia femminile, l’aborto letteralmente non esiste. I pro-life non sembrano dare troppo peso nemmeno alla diffusa irresponsabilità maschile – dal rinvio sine die alla fuga a gambe levate – che spiega un cospicuo numero di aborti («Per il piacere di chi sto abortendo?» si domandava Carla Lonzi), impegnati come sono in una difesa d’ufficio della figura paterna, padri violenti compresi. È la misoginia definitiva del ddl Pillon sull’affido condiviso recentemente ripresentato al Senato, vera e propria guerra alle donne in nome di un’astratta parità genitoriale: centinaia le madri cosiddette “alienanti” a cui sono stati sottratti i figli, un nome per tutti quello di Laura Massaro che ha recentemente vinto la sua battaglia in Cassazione.

Da parte dei pro-life, dunque, una partecipazione attiva alla svalorizzazione della madre: è così che si pensa di incrementare le nascite? Non si andrà da nessuna parte se si ritiene che sia questa la strada per ridurre il tasso di abortività, obiettivo certamente auspicabile; che basti la carità pelosa di un aiuto economico last minute alle gestanti in difficoltà e che non sia mai necessario nominare le storture del dominio patriarcale che ha fatto del corpo della donna un territorio pubblico, né tantomeno il primato dell’economia per cui le madri sono solo sassolini nell’ingranaggio. Nasceranno sempre meno bambini e il mondo andrà sempre peggio se non si lavora per la libertà femminile anziché contrastarla, riportando al centro e per il bene di tutti quella relazione tra la madre e la creatura che è fondamento di ogni comunità umana. State sbagliando proprio tutto, amici pro-life.


(La Stampa, 15 giugno 2022)

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