13 Gennaio 2019
Elle

Contro le mutilazioni genitali femminili c’è una donna che fa educazione sessuale in Kenya

(altro titolo, sull’edizione cartacea: La rivoluzione è in viaggio)

La fine dei più orribili riti di passaggio, l’escissione del clitoride, è forse racchiusa nella valigia di Maria Nareku, che di villaggio in villaggio fa lezioni sul sesso alle donne Masai, prima di tutto, ma anche agli uomini


di Stefania Miretti

 

Maria Nareku ha una valigia azzurra, d’un modello che fu moderno, con le ruote consumate e sostanzialmente inutili sugli sterrati della savana: tocca comunque trasportarla a mano, viaggiando a piedi e in autobus, prendendo un passaggio in moto o sul carro bestiame. Dentro la valigia, avvolti in una coperta con le stampe di Minnie e Topolino, ben protetti dai sobbalzi e dalla polvere, Maria conserva i suoi molteplici tesori: pezzo forte, un bacino femminile in plastica dotato d’una serie di vulve a incastro, intercambiabili. Si tratta, anche in questo caso, di un oggetto vecchiotto, difficile da rimpiazzare, ma ancora necessario, perciò Maria lo preserva dall’usura passando e ripassando mani di vernice su incavi e protuberanze: il rosa delle piccole labbra, il rosso del sangue, le striature scure sulla testa del toto, il bambino che s’affaccia al mondo. Un marrone grigiastro per la manutenzione di cicatrici, fistole e suture, perché solo nella prima vulva le cose sono come dovrebbero essere là sotto, in quella che lei chiama «la fabbrica dell’umanità».

Tutto il resto è il campionario degli orrori, come in buona parte dell’Africa, nelle zone rurali del Kenya e qui tra le comunità Masai della contea del Kajiado dove, nonostante la legge vieti le mutilazioni genitali femminili, l’escissione del clitoride costituisce da sempre il più importante rito di passaggio all’età adulta. È successo anche a Maria, che Masai non è. L’hanno tagliata quando aveva 13 anni, durante le vacanze di Natale (da queste parti è dicembre il più crudele dei mesi, e dopo non si torna a scuola). Ancora adesso, che ne ha 47, il suo corpo ha memoria di quella violenza.

«Non sono bella, ma dico la verità», recita un detto swahili stampato sul telo che Maria usa per disporre a terra i suoi modellini. Lei, furibonda per quel che le era accaduto, il silenzio l’ha rotto quasi subito, fondando nel suo villaggio il “gruppo del baobab”: l’autocoscienza all’ombra di un albero. Oggi che è un’attivista di Amref, la più grande organizzazione sanitaria no profit in Africa, è quasi sempre in viaggio. Apre la valigia al centro dei villaggi, ne espone il contenuto, compresi i due peni in plastica dura e l’utero di pezza che pare un pupazzetto, incastra la prima vulva nel manichino – «questa è la bellissima vagina tutt’intera» – e dice la verità, ma come fosse teatro.

Prima alle donne, poi agli uomini, Maria parla di dolore e del piacere che avrebbe invece dovuto esserci, di sangue e di puzze, dei digiuni imposti alle gravide perché per una vagina resa meno elastica dalle cicatrici – “morta” – il passaggio d’un bambino normopeso sarebbe uno sfracello, della conseguente piaga della malnutrizione infantile. A donne che non possiedono specchi per vedersi insegna come tenersi pulite, gli esercizi per rafforzare i muscoli pelvici. Invita gli uomini a toccare le sue vulve in plastica, quella senza clitoride, quella a cui sono state tagliate le grandi labbra, persino il raccapricciante “modello somalo”, tutto cucito. Strappa sorrisi mimando i disastri del rapporto sessuale tra una donna tagliata e un uomo circonciso. Mette in discussione ataviche paure: no, non è vero che un clitoride lasciato al suo destino finirà per crescere a dismisura.

Sono incontri schietti, tanto espliciti quanto sorprendentemente privi d’ogni malizia o sguaiataggine. E i più attenti sono gli uomini. «Io l’ho toccata una vagina non tagliata, era soffice», conviene un anziano avvolto nella tradizionale coperta a quadri. «Ora che ho capito, non permetterò che le mie figlie vengano tagliate», assicura un altro. Gli attivisti sono i primi a sapere che non sempre le parole corrispondono ai fatti, che nel tentativo di aggirare leggi e pressioni molte famiglie anticipano la cerimonia, ma i progetti messi in campo hanno già prodotto un bel po’ di cambiamenti, il più straordinario dei quali è il rito di passaggio alternativo, che molti capi villaggio hanno accettato di celebrare: restano le danze, i segni tribali dipinti sul volto, le insegne identitarie così importanti per tutti, ma sparisce la lama e le ragazze diventano adulte con la benedizione di libri e penne. È un lavoro lento e tenace, che tra Kenya e Tanzania ha già salvato più di 10mila bambine e comprende la formazione per riconvertire le “tagliatrici” in produttrici di sapone o di assorbenti in stoffa.

In prima linea, qui nel Kajiado, c’è Anastacia Mashidana, 40 anni, mutilata a 13, 7 figli messi al mondo tra molte complicazioni. Lei trova che a volte sia più semplice parlare agli uomini. Racconta che quando mostra loro un video su quel che accade durante la cruenta cerimonia, molti scoppiano in lacrime. «Piangono, ma dentro sono combattuti, hanno paura che cambiare significhi perdere l’identità».

Identità. Appartenenza. Tradizioni. È su questo che si fonda la pratica delle mutilazioni tra i Masai del Kenya (quasi tutti cristiani, a modo loro), ed è per questo che è così difficile, persino doloroso, rinunciarvi. Il patto con le ragazze alle quali viene concesso il rito di passaggio alternativo, già più di 1200 in questa contea, è che al termine degli studi tornino a casa per sposarsi.

La paura, grande, è che non tornino più. Una sola bambina non tagliata significa che tutte sono libere, e studiare, qui, è il sogno più contagioso che ci sia. La celebre Nice Nailantei Len’gete, tra le prime a ribellarsi, ha aperto la strada diventando un’icona mondiale celebrata su Time e ricevuta da Barack Obama, e quasi in ogni villaggio Amref forma le sue campionesse, affinché diventino a loro volta formatrici come la venticinquenne Cynthia Simantoi Oning’oi. Lei però ha dovuto liberarsi da sola, anche dal rancore nei confronti delle zie che una mattina presto, mentre i genitori erano assenti, sono entrate nella sua capanna armate di taglierino. «Mi sembrava impossibile vivere con quel trauma addosso, ho pensato spesso al suicidio. Quando, anni dopo, ne ho parlato con le donne che m’avevano ferita, abbiamo pianto insieme. Me le sono lasciate alle spalle, ma so che non l’hanno fatto per mancanza d’amore. Loro credevano di agire per il mio bene».

Quella di Cynthia è una delle tante storie di successo: col consenso dei genitori è andata a studiare sociologia lontano dal villaggio, con l’aiuto di una benefattrice ha affrontato un intervento di chirurgia ricostruttiva, all’estero, e il prossimo aprile sposerà il «magnifico ragazzo Masai» che l’ha sempre incoraggiata. Nella sua scia tante altre, più piccole, si preparano a spiccare il salto. Una è Sabina Lakara, 15 anni scontrosi e assertivi, la cui vita è cambiata all’improvviso durante un workshop di educazione sessuale a scuola, pochi giorni prima della sanguinosa cerimonia già programmata. Nella sua capanna, coi piedi nel fango, racconta di voler diventare avvocatessa. «L’incontro con Nice», dice, «è stato la mia fortuna». Il suo papà, nel frattempo, ascolta la lezione di Maria Nareku. Lui ora vive con una nuova moglie meno consumata, con la quale poter avere altri figli e prendersi un po’ di piacere, come fanno tutti. Anche Maria è stata abbandonata per una più giovane, ma non se ne cruccia. A casa l’aspettano l’orto e tre figli maschi che ogni tanto sbuffano e le dicono: «Mamma, basta parlare sempre di vagine!».

 

Elle, 13 gennaio 2019

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