23 Gennaio 2022
la Repubblica

Cosa frena le donne a sinistra

di Elena Stancanelli


Su queste pagine Luca Ricolfi ha riproposto la tesi secondo la quale, in questi anni, per “farcela” in politica una donna deve essere di destra. Perché nei meccanismi che regolano le carriere politiche, scrive, “a sinistra è ancora dominante la cooptazione, mentre a destra c’è anche un po’ di meritocrazia”. E fa alcuni esempi: Angela Merkel, Margaret Thatcher, Theresa May, Marine e Marion Le Pen, Ursula von Der Leyen e Giorgia Meloni. Si potrebbe obiettare che Marine e Marion, figlia e nipote d’arte, non sono un esempio molto calzante di meritocrazia, ma mi interessa di più capire se quello che dice è vero. In Europa, tra quelle di sinistra, ce l’hanno fatta Maia Sandu, economista e prima donna presidente della Moldavia, Katrìn Jakobsdòttir, prima ministra islandese, femminista e leader dei Verdi, Kaja Kallas prima ministra estone, Sanna Mirella Marin, la più giovane leader di governo nel mondo e rappresentante del partito socialdemocratico (Spd), Salomé Zourabichvili in Georgia, Ingrida Simonyte prima ministra della Lituania, Ana Brnabic prima ministra serba e prima donna dichiaratamente omosessuale a ricoprire tale carica nel suo Paese, Zuzana Caputova primo ministro in Slovacchia, giurista e avvocato, cresciuta nelle no-profit, membro fondatore del partito progressista. Nel mondo poi, qualche esempio: il Bangladesh è guidato da una donna progressista, come lo è stata la Birmania di Aung San Suu Kyi, dal 2015 la presidentessa del Nepal è Bidhya Devi Bhandari, leader del partito comunista, e ancora Singapore, l’Etiopia, il Gabon, Trinidad e Tobago. Per non parlare di Jacinda Ardern, prima ministra della Nuova Zelanda, capo del Partito laburista dal 2017, ambientalista e in lotta contro la discriminazione o Kamala Harris, prima donna vicepresidente degli Stati Uniti. Sono noiosi gli elenchi, lo so, ma è anche noioso sentir dire, ancora con tono sarcastico “le paladine della causa femminile”, o la “sopravvivenza del patriarcato”. Ma Ricolfi, malgrado faccia riferimento all’Europa, sembra voler parlare soprattutto dell’Italia e in particolare del Pd. In Italia, alcuni anni fa quando ancora il cosiddetto patriarcato era in auge e le cosiddette paladine venivano messe a tacere, si diceva che per farcela in politica le donne dovevano essere belle e darla via con disinvoltura.

Erano i beati anni del berlusconismo, in cui era il capo a decidere sulla base del proprio esclusivo gusto, anche estetico. Era la destra, senza alcun dubbio, ed era, ancora più evidentemente, un meccanismo di cooptazione che niente aveva a che fare con la meritocrazia. Generalizzo, in quell’elenco c’erano anche donne brave, o che sarebbero diventate brave. Ma il cui esordio, almeno secondo la vulgata, era stato favorito da abilità diverse da quelle politiche. Mentre questo avveniva, o anche molto prima, le forze progressiste esprimevano donne che portavano a casa la riforma dello stato di famiglia (Giglia Tedesco), la legge sul divorzio (Nilde Iotti) e quella sull’aborto (Emma Bonino). Le donne progressiste hanno cambiato questo Paese, spingendolo verso l’Europa, tirandosi dietro maschi riluttanti ai quali hanno imposto le loro scelte coraggiose. Non basta, certo.

Oggi le donne nei ruoli apicali della politica in Italia sono pochissime, come mai? È davvero, come dice Ricolfi, una tara culturale della sinistra, dentro la quale le designazioni avvengono appunto per cooptazione, per chiamata diretta dei capi corrente e dei segretari di partito? C’è una questione e riguarda il movimento femminista italiano. Questo sì mai del tutto compreso o accolto dal partito comunista e poi dalle forze progressiste. Gran parte delle donne che fanno politica nella sinistra italiana dialogano col movimento femminista, lo ascoltano, combattono le stesse battaglie. In questo modo le donne hanno ottenuto i risultati di cui parlavamo. Cosa che non accade per quelle di destra. Giorgia Meloni, con tutto il rispetto, si definisce femminista ma si muove dentro un universo culturale diverso da quello del femminismo. È un’altra concezione della politica, meno spregiudicata, meno individualista. È la cosiddetta doppia militanza, cioè la possibilità di fare politica stando dentro un partito ma mantenendo anche un legame col movimento femminista.

Che è, appunto, una fatica doppia. Ma che rende però più solida e seria la proposta politica, più forti le battaglie. Forse quindi la questione è un’altra: le forze progressiste, in Italia, hanno, storicamente un problema, ma non con le donne: con il femminismo.


(la Repubblica, 23 gennaio 2022)


Print Friendly, PDF & Email