25 Novembre 2025
La Stampa

Così Giulia e Monica mi hanno fatto capire il tempo che ho perso

di Gino Cecchettin


Per tanti anni ho creduto che essere un uomo significasse una cosa sola: non cedere mai. Non mostrare paura. Non chiedere aiuto. Essere quello che decide, che regge tutto, che ha sempre ragione. Era un modello che non avevo scelto. Semplicemente ci ero cresciuto dentro. Il mio cambiamento non è iniziato quando la mia vita è crollata. È iniziato molto prima, quando mi sono innamorato di Monica. Anzi, non subito: è iniziato quando ho cominciato a vivere con lei, con una donna. È lì che ho capito, giorno dopo giorno, che quel modello non funzionava nelle relazioni vere. Che non puoi amare davvero qualcuno e allo stesso tempo voler vincere sempre. Che la forza non è nel dominare il confronto da soli, ma nel saperlo attraversare insieme. Eppure quel vecchio modello di “maschio alfa” era duro da lasciare. Mi ha fatto perdere tanti secondi, tante ore di vita con la persona che amavo. Quando c’erano attriti, quando si discuteva, io non riuscivo a vedere chiaramente: volevo solo avere ragione. Non scendevo a compromessi, restavo rigido, chiuso, convinto che cedere avrebbe significato essere debole. Quei minuti, quelle ore, quei giorni passati con il muso duro e la rabbia dentro… Li ho rimpianti tutti, ma proprio tutti, quando, a causa del cancro, il tempo ha cominciato a mancarci davvero. Quando la vita ti mette davanti a un limite così grande, capisci in un attimo quanto sia stupido difendere l’orgoglio invece dell’amore. E poi è arrivato un altro colpo, più grande di quanto potessi immaginare: Giulia non c’era più. Giulia era amore, era semplicità, era lontana da quell’orgoglio che complica la vita. E solo allora ho avuto la piena consapevolezza che anch’io potevo cambiare. Ho capito che quella trasformazione iniziata anni prima poteva diventare la mia salvezza. Che se fossi rimasto l’uomo che non cede mai, che trattiene tutto, che non ascolta, mi sarei spezzato completamente. Ho compreso che essere un uomo non significa resistere a tutto. Significa permettersi di sentire. Non significa controllare. Significa accogliere. Non significa trattenere. Significa lasciare spazio alla verità, anche quando fa male. E significa anche porre attenzione al linguaggio che usiamo. Le parole che scegliamo, spesso senza pensarci, sono anch’esse figlie del modello culturale che abbiamo ereditato: parole dure, assolutiste, parole che dividono, che etichettano, che feriscono senza che ce ne accorgiamo. Siamo una società narrante che comunica attraverso una lingua, e la lingua crea, plasma, definisce. E il cambiamento passa anche da qui, dal modo in cui nominiamo il mondo e chi ci sta accanto. Perché le parole – tutte le parole – possono creare empatia o distacco, comprensione o pregiudizio, gioia o dolore, amore o odio, violenza o pace. E scegliere parole diverse, più gentili, più vere, più libere dall’orgoglio, è già un modo per trasformare le relazioni e la società in cui viviamo. Oggi posso dirlo con sincerità: quel modello di maschio che vive per dimostrare qualcosa non ci rende più forti: ci rende solo più soli, più arrabbiati, più lontani da chi amiamo. La mia forza è arrivata quando ho accettato di essere vulnerabile. Quando ho smesso ogni maschera. Quando ho iniziato a vedere davvero le donne non come un esame da superare o un terreno da conquistare, ma come un dono da ricevere – così come io avrei voluto essere il più bel dono per Monica e per Giulia. Da allora vivo meglio. Sono più leggero. Meno teso. Meno arrabbiato. Più presente. Per questo oggi mi rivolgo agli uomini che fanno fatica, che hanno paura di cambiare, che pensano che mettere da parte l’orgoglio significhi perdere terreno. Non è così. Cambiare non toglie forza: la libera. Io non posso recuperare il tempo che ho perso. Ma posso cercare di vivere diversamente il tempo che mi resta. E so che questo cambiamento – dolce, profondo, liberatorio – inizia da noi uomini. Dalla scelta, finalmente, di essere veri.


(La Stampa, 25 novembre 2025)

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