18 Maggio 2021
Attacco

Cui prodest. Dedicato a chi sceglie di amare con libertà senza bisogno di etichette

di Antonietta Lelario


Un punto su cui non si fa sufficiente chiarezza è che la critica di alcune e alcuni di noi al ddl Zan non è rifiuto di un progetto di legge contro l’omofobia. Personalmente, proprio perché ritengo che prima venga la coscienza sociale di un problema e poi la sua traduzione in legge, considero ormai maturi i tempi di una legge. Del resto noi donne abbiamo aperto la strada con la legge contro la violenza maschile.

Anche solo guardando la Regione in cui abitiamo, la Puglia, registro che il presidente di regione più apprezzato e sostenuto anche dalle donne è stato Vendola, un omosessuale dichiarato, che Vladimir Luxuria, una transessuale, è stata eletta al parlamento e ha esercitato il suo mandato come deputata durante il secondo governo Prodi, che a Foggia c’è stato un gay pride che ha visto una grande partecipazione popolare, in particolare femminile e giovanile.

Inoltre, lo stesso consenso al ddl Zan mostra l’ampiezza di un’area sociale che rifiuta l’odio contro lesbiche, omosessuali e trans.

Su che cosa allora in quest’area si creano conflitti e come possiamo gestirli in modo che le differenze che essi implicano siano occasioni di crescita culturale per tutti?

Premetto che, come dice egregiamente Ida Dominijanni, si poteva scegliere l’ampliamento della legge Mancino a tutte le persone, qualsiasi sia il loro sesso o la loro condizione, lasciando il dibattito sulle formulazioni linguistiche, sesso, genere, identità, natura, cultura, storia, alla sua sede più propria che è la politica, senza determinarle nel diritto penale.

Infatti ancora non c’è interpretazione univoca e diffusa: chi, praticando solo la lingua comune, sa dire che cosa si intende per genere e identità di genere? E che differenza c’è fra sesso e genere?

Fino ad ora siamo stati liberi/e di assumere una parola o l’altra essendo le questioni a cui loro si riferiscono, e noi, in pieno cambiamento, il che rende la scelta profondamente politica.

Dovendo però fare i conti con una legge penale, dobbiamo chiarire perché molte di noi con una lunga storia di femminismo alle spalle preferiamo e chiediamo al ddl Zan termini più vicini all’esperienza come sesso, uomini, donne, omosessuali, lesbiche e transessuali. Lo facciamo perché mantengono un legame con la materialità del corpo, perché non gli contrappongono l’onnipotenza della parola con la quale possiamo dichiarare di essere ciò che vogliamo. Infatti i passaggi da un sesso all’altro, se avvengono con amore per il proprio corpo, non ne cancellano la complessità. Un trans o una trans sanno di non essere un uomo o una donna. L’approdo non cancella il cammino.

La pretesa onnipotente di cancellare con le parole ogni relazione con ciò che siamo o con il nostro percorso è il contrario di ciò che capiamo dalla relazione materna che invece ci insegna a essere consapevoli della nostra dipendenza, ci ricorda il senso della fragilità umana e ci lascia la riconoscenza come collante sociale. È un nuovo ordine simbolico.

È ciò di cui siamo portatrici come donne, e che vale per tutti, invece si preferisce la strada dell’aggiungere diritto a diritto in un corpo a corpo continuo che elude la trasformazione culturale profonda di cui c’è bisogno.

Noi siamo l’unico soggetto politico che non chiede inclusione nell’ordine simbolico e sociale dato, ma va alle origini del patriarcato e, chiedendone il superamento, indica un altro ordine di senso per ogni questione, dall’ambiente all’economia, dalle relazioni fra uomini e donne al legame di ciascuno/a con il proprio sesso. Gran parte del cammino è stato fatto in uno scambio reciproco arricchente con amiche lesbiche. Per questo a dare battaglia sul linguaggio del ddl Zan in primo piano ci sono Arcilesbica e le amiche dell’UDI, oltre al femminismo della differenza e a quello radicale.

Insieme abbiamo inferto colpi all’idea del corpo femminile ridotto a oggetto, e se il corpo non è un oggetto da usare a piacimento o da smembrare cade anche l’idea che qualcuno o qualcuna possa essere proprietà di un altro. Si scoprono così i guasti enormi provocati dalla logica del dominio.

Cosa difficile da capire per chi non si è mai misurato con l’ampiezza del nostro discorso e ha ridotto le donne alla necessità di asili e tutele, proponendo come orizzonte ciò che gli uomini hanno voluto per sé!

Mentre sta avvenendo questa rivoluzione, l’unica non cruenta, la comunicazione si è riempita di espressioni gergali come la parità di genere, la differenza di genere, espressioni che sono confluite nel ddl in questione. Il nostro conflitto con queste parole non è recente. Le circolari scolastiche utilizzano questo linguaggio da anni creando spazi separati e competenze specialistiche per parlare di questo tema, come se la differenza di cui noi siamo espressione possa essere separata da noi per diventare una questione “di cui occuparsi”.

Quell’ansia gioiosa di essere “io e te” in comunicazione per esplorare chi siamo, in un processo che evita come la peste definizioni e formule prestabilite, rischia di essere soffocata da questo formulario e dalla concezione che esprime, in cui corpi e saperi si spezzettano a piacimento.

Sembra di tornare alla “questione femminile”: un contenuto oggettivato da imparare e ripetere per adeguarsi al conformismo imperante.

Ora il Covid ci costringe a pensare ai guasti generati dall’ideologia patriarcale, che ha preteso di dominare la natura asservendola ai propri interessi. Ora più forte è l’esigenza di assumerci la nostra fragilità e le paure che questo comporta. Ora più urgente è imparare a stare all’esperienza che stiamo vivendo con parole aderenti e coraggiose. Ora dobbiamo cercare non una nuova ideologia, ma un nuovo pensiero e risposte ai problemi che è possibile trovare solo stando strettamente attaccate e attaccati alla vita.

Per questo tanto meno sopportabile è la fuga nell’astrazione di quel linguaggio.

Anzi, occorre ricordare che la lotta all’eccessiva burocratizzazione che molti riconoscono come urgente, in tutti i campi, parte anche da qui, dalla presa d’atto che un linguaggio lontano dall’esperienza, che moltiplica le casistiche e le differenze, dimentica l’essenziale. Proprio quello che rischia secondo me, e non solo secondo me, il ddl Zan così come è formulato.

E la cocciutaggine con cui i promotori rifiutano ogni confronto, da qualunque parte provenga, lascia aperta la domanda: cui prodest?


(Attacco, 18 maggio 2021)

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