25 Aprile 2022
la Repubblica

Da vittime di violenza a “madri cattive”, quando i giudici puniscono le donne

di Maria Novella De Luca


La Commissione sul femminicidio: «Nel 97% delle separazioni conflittuali ignorati i referti sui maltrattamenti»


Millecinquecento fascicoli esaminati, tre anni di lavoro, ottantanove pagine di relazione. Per testimoniare, sotto forma di numeri, quanto da tempo la cronaca racconta: quando in una separazione conflittuale le donne denunciano per violenza i propri partner, da vittime, spesso, diventano imputate, vengono accusate di essere “madri cattive” e rischiano di perdere la tutela dei figli. Un nome simbolo: Laura Massaro. Un dato emblematico: nel 97% dei casi esaminati, i giudici, nel decidere dell’affido dei bambini, hanno ignorato documenti, referti addirittura sentenze di uomini rinviati a giudizio per maltrattamenti.

È un documento da cui non si potrà più prescindere la relazione della Commissione d’Inchiesta sul femminicidio: «La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti di affidamento e responsabilità genitoriale». Una descrizione implacabile di un segmento distorto della Giustizia civile e minorile, per cui accade che un bambino possa essere affidato a un padre condannato per violenza e tolto alla madre che quell’uomo aveva denunciato. Ecco alcuni passaggi chiave della relazione, in particolare sui tribunali ordinari.

Esaminati 1500 fascicoli

La Commissione ha analizzato circa 1460 fascicoli, di cui 569 provenienti dai tribunali ordinari per il trimestre marzo-maggio 2017 e 620 dei tribunali minorili relativi al mese di marzo 2017. A questi vanno aggiunti altri 45 fascicoli inviati direttamente da madri che hanno denunciato la sottrazione dei figli. Il lavoro del pool di magistrate, avvocate e consulenti ha evidenziato, sentenza dopo sentenza, come si arriva a casi clamorosi come quello di Laura Massaro che ha fondato il “Comitato madri unite contro la violenza istituzionale”, e da 10 anni lotta perché suo figlio non venga collocato in casa famiglia, su richiesta del padre, denunciato per violenza e con il quale il bambino non vuole avere rapporti. O alla tragedia di Ginevra Pantasilea Amerighi, il cui fascicolo fa parte dei 45 esaminati dalla commissione, a cui la figlia Arianna venne strappata dalle braccia dai servizi sociali quando aveva soltanto pochi mesi e affidata a un padre condannato per maltrattamenti.

Gli allarmi inascoltati

Nel 97,6% dei circa 600 casi di separazione giudiziale esaminati, i giudici dei tribunali ordinari non hanno tenuto conto né di referti e testimonianze di violenza domestica, presentati nell’86,9% dalle donne, né, ed è forse ancora più grave, di “carte” che denunciavano maltrattamenti su figli minori (18,7% dei casi). Non solo. I presidenti dei tribunali, si legge nella relazione, «pur a conoscenza di procedimenti penali pendenti o definiti, nel 95% dei casi non hanno ritenuto di acquisire gli atti». Dunque può succedere, anzi è successo e l’indagine svela finalmente quale è il meccanismo che porta a questa distorsione, che in una separazione un bambino possa essere affidato a un padre condannato per violenza e tolto ad una madre accudente e presente. Commenta Valeria Valente, presidente della Commissione: «Ciò che emerge dalla relazione è che donne e bambini vittime di violenza domestica possono subire ulteriore vittimizzazione in tribunale. Occorre maggiore formazione da parte di tutti gli operatori per riconoscere la violenza domestica e una più ampia correlazione tra cause civili per separazione e cause penali per maltrattamenti».

L’alienazione parentale

Ma come si arriva ai casi estremi esaminati dalla Commissione sul femminicidio del Senato? Nell’affido dei figli oggi il concetto dominante è la salvaguardia della bigenitorialità al di sopra di tutto, come prevede la legge 54 del 2006 sull’affido condiviso. Un concetto spesso portato all’estremo nelle separazioni conflittuali, dove accade che ai figli vengano imposti incontri con padri maltrattanti, rinviati a giudizio, in carcere. La motivazione (smentita però dalla Cassazione) è che, «un cattivo padre è meglio di nessun padre», nell’idea, si legge nella relazione, «che una educazione monosessuale» potrebbe incidere (negativamente) sul futuro dei figli.

Dunque i servizi sociali impongono incontri ai quali però in moltissimi casi i bambini non vogliono partecipare perché hanno visto quei padri picchiare o sono stati a loro volta abusati. Di questo rifiuto vengono colpevolizzate le madri, definite nelle relazioni dei “Ctu”, discussi consulenti tecnici di ufficio, nel 28% dei casi, madri alienanti, simbiotiche, manipolatrici, malevole, fragili. Inadatte allora a fare le madri, tanto da poter essere sollevate dalla responsabilità genitoriale, tanto da poter strappare loro i figli con la forza. Da ricordare una storia su tutte e il nome di un bambino: Federico Barakat. Fu ucciso a 8 anni a coltellate dal padre durante un incontro protetto nella sede della Asl di San Donato Milanese. La mamma, Antonella Penati, invano aveva avvertito i servizi sociali della pericolosità del suo ex. Era stata definita alienante e ipertutelante e al bambino erano stati imposti quegli incontri con un padre che si sarebbe trasformato in killer.

Il silenzio dei bambini

Uno dei dati di accusa più forti di tutta la relazione riguarda il diritto negato dei bambini, e degli adolescenti, a far sentire la propria voce nelle sentenze di affido che li riguardano. Soltanto nel 30,8% dei fascicoli esaminati i minori vengono ascoltati, ma soprattutto soltanto il 7,8% viene ascoltato direttamente dal giudice. Questo fondamentale e delicatissimo momento viene nell’85,4% dei casi delegato ai servizi sociali. Anzi, la voce dei bambini non viene nemmeno registrata durante l’incontro, al giudice dunque – ed è gravissimo – il pensiero dei minori non arriva mai nella sua autenticità.


(la Repubblica, 25 aprile 2022)

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