24 Febbraio 2023
Il Riformista

Donne che si dimettono

di Lea Melandri


In un breve intervallo di tempo si sono dimesse due donne premier – la neozelandese Jacinda Ardern e la scozzese Nicola Sturgeon – e la top manager di YouTube, Susan Wojcicki. Alla sorpresa, sulla stampa ha fatto immediatamente seguito l’affannosa ricerca di ragioni “politiche” – responsabilità troppo pesanti, attese deluse, ecc. – ritenendo evidentemente “non politica” la motivazione che, con profonda sincerità e chiarezza, e quasi con le stesse parole, tutte e tre hanno dichiarato nelle interviste, e cioè il desiderio di dedicare più tempo alla famiglia, ai figli, al marito. A passare in ombra è stato anche l’accenno che entrambe le premier hanno fatto al loro essere “umane”. Nicola Sturgeon ha parlato in modo esplicito della “brutalità della politica”, del desiderio di ritrovare una parte essenziale di sé che aveva dovuto sacrificare, e lo ha fatto con un’immagine che avrebbe dovuto colpire per la sua forza e imprevedibilità: «dedicare un po’ di tempo a Nicola Sturgeon l’essere umano». Ha poi aggiunto che sperava che questa sua scelta non fosse giudicata «egoistica». E non aveva torto. Che altro è il “Sé”, la “persona” nella sua interezza di corpo e pensiero, sentimenti e ragione, contrapposta al “cittadino”, se non quel “privato” attento unicamente ai propri interessi che è rimasto da millenni fuori dalla sfera pubblica? Non dovrebbero essere grate le donne per la loro integrazione in ruoli di potere da cui sono state escluse così a lungo? È fin troppo facile attribuire la loro scelta di abbandonarli a una stanchezza o inadeguatezza derivanti dalla loro “natura”, poco incline a compiti civili di grande portata istituzionale, più difficile chiedersi che cosa si intende per quell’“essere umano” che ora chiede la sua parte di attenzione e di riconoscimento. Se le donne, entrate con fatica nei luoghi del potere, cominciano a non considerarli più un traguardo ambito, ma una gabbia non meno vincolante del ruolo domestico, di mogli e madri, non è forse per quella politica separata dalla vita che mostra oggi in modo evidente il suo declino, la sua violenza, la sua “brutalità”, il suo legame con un dominio che ha confinato nella “natura” esperienze essenziali dell’“umano”? È forse una meraviglia che le donne comincino a “disertare” una politica che ha il suo fondamento nella divisione sessuale del lavoro, nella cancellazione dalla storia delle esperienze che hanno una relazione col corpo, le sue passioni, i suoi limiti, i suoi bisogni – come la sessualità, la maternità, la nascita, l’invecchiamento, la morte, la malattia, la dipendenza – e cioè con la parte dell’umano che la cultura patriarcale ha creduto di essersi lasciata alle spalle, identificata col “femminile”? Che la richiesta di “parità” fosse senza via d’uscita il femminismo lo aveva già capito nel momento in cui ha smesso di parlare di “questione femminile”, di “cittadinanza incompleta delle donne”, di “svantaggio da colmare”, per spostare l’attenzione sull’assoggettamento di un sesso a danno dell’altro che va ben oltre le “discriminazioni”, diventate oggi, a quanto sembra, l’unico ostacolo da tenere sotto controllo e da stigmatizzare. Nel momento in cui sono state messe al centro delle anomale pratiche del femminismo degli anni Settanta le “problematiche del corpo” – la cancellazione della sessualità femminile, la maternità come obbligo procreativo, la riduzione delle donne a “genere” e non “persone”, il confinamento nel ruolo di cura, dato come “naturale” estensione della loro capacità generativa, la colonizzazione dei loro pensieri – avrebbe dovuto essere chiaro che si stava parlando della storia, della cultura e della politica del sesso che ha imposto la sua visione del mondo, e che non si poteva pensare a un cambiamento del rapporto tra uomini e donne che non implicasse prioritariamente una messa in discussione dell’ordine esistente. Nelle sue trasmissioni su Radio Tre, dal novembre 1978 al febbraio 1979, in dialogo con le “Altre”, le giovani femministe, su alcune parole chiave della politica, Rossana Rossanda scriveva:

«La prima contraddizione è dunque per la donna fra tempo della politica e tempo della vita […] sono due esperienze che si sono dissociate […] la donna che fa tradizionalmente politica salta di continuo tra un piano e l’altro, vive tutti e due senza confini ed estraneità». E aggiungeva che era necessaria un’altra idea della politica, in cui non si dovesse «appiattire nella condizione di “lavoratore” o “sfruttato” o “cittadino” la diversità e la ricchezza della singola persona, e dei rapporti irripetibili che intercorrono tra persone reali […] Le femministe dicono che vogliono la persona non solo partecipe ma esposta in tutta se stessa […] La vita delle donne, insomma, è piena di regole, ma queste si incarnano sempre in un volto, un rapporto diretto, un vissuto, in spessori profondi talvolta fino all’inconscio. Spessori che, quando passa al rapporto politico, sembrano dileguarsi nella figura astratta del cittadino astratto […] Le donne sentono che la loro disuguaglianza viene da una cultura antica, introiettata, qui sta il principio della loro oppressione, prima che nelle leggi e più forte della legge […]. Rivoluzionarie o rivoltose. Raramente sono democratiche».

Ma come si può chiamare democrazia un sistema che pur con tutti i cambiamenti avvenuti col tempo, continua ad avere come fondamento quel “principio paterno” che – scrive Bachofen nel Matriarcato – è «vita spirituale che si eleva al di sopra di quella fisica», mentre la maternità farebbe parte della «componente carnale dell’uomo», in rapporto con gli altri esseri viventi e la «terra madre di tutte le cose»?

Da alcuni anni la rete internazionale Non Una Di Meno ha dato alla ricorrenza dell’8 marzo una fisionomia nuova, più radicale: lo sciopero delle donne dalle attività produttive e riproduttive, un accostamento inedito tra realtà che siamo abituati a considerare separatamente, come lo sfruttamento economico, l’ingiustizia sociale e le esperienze legate alla “vita intima”, come la cura e il lavoro domestico, con il carico di violenza che le ha segnate da sempre. Si potrebbe leggere in questa chiave anche l’abbandono di ruoli di potere a cui oggi assistiamo, in quanto non parla di un ripiegamento su posizioni tradizionali, ma di una forma di “rivolta femminile” contro la disumanità di una politica che si è costruita senza di loro e contro di loro.


(Il Riformista,  24 febbraio 2023)

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