di Pinella Leocata
«Chi ha paura della libertà delle donne?». Una questione complessa su cui si sono interrogate le femministe della rete “Le città vicine”, e gli uomini di “Maschile plurale”, nel corso di un convegno on line organizzato da Anna Di Salvo de “La città felice” di Catania. Innanzitutto la presa d’atto delle numerose conquiste fatte dalle donne dagli anni Settanta ad oggi sul fronte delle leggi di libertà civili (quali l’aborto, il divorzio, il diritto di famiglia), di parità (congedi parentali, accesso alle carriere, parità salariale) e del contrasto alla violenza maschile (leggi contro il femminicidio, lo stalking e il revenge porn). Eppure, nonostante questo, la violenza maschile continua a crescere esponenzialmente, insieme all’espandersi della libertà delle donne e della loro volontà di autodeterminarsi, anzi proprio per questo. Il patriarcato è morto – «perché ha perso credibilità e non ha più la capacità di orientare l’agire umano e di offrire un futuro» – ma alcuni dei suoi meccanismi millenari sopravvivono, a partire dalla violenza contro le donne e dalla continua separazione delle parole dalle cose in un inganno che cerca di occultare la donna e la sua differenza.
Oggi la violenza maschile sulle donne ha assunto aspetti più subdoli. Continua quella fisica, che si esprime anche nell’esplosione dei femminicidi, quella psicologica ed economica e si aggrava quella istituzionale. Fino agli anni Novanta – rilevano in tante – le donne vittime di violenza trovavano una sponda nelle magistrate e nelle operatrici che si occupavano del loro caso, mentre adesso non è più così, in nome delle pari opportunità che hanno finito per appiattire le differenze e per oscurare la violenza maschile mettendo i soggetti in situazione di bilanciamento. Le donne oggi sono accusate di alimentare il conflitto e di presentarsi subdolamente come vittime per lucrare situazioni di vantaggio. Vengono annullate, cioè, le condizioni di disparità delle donne che spesso non lavorano, o lavorano poco e che comunque spendono quello che hanno per la famiglia. Si sperimentano, dunque, condizioni di doppia violenza perché esiste una forma di violenza istituzionale di segno patriarcale agita indipendentemente dal sesso. E il riferimento è alle leggi sulla bigenitorialità, all’alienazione parentale – per cui i figli vengono sottratti alle madri – alla discussione sulla pratica dell’utero in affitto e al tentativo di considerare la prostituzione un lavoro come un altro. E violente sono anche le nuove tecniche riproduttive che spezzano l’indispensabile mediazione della relazione materna.
A queste forme di violenza si aggiunge il tentativo di cancellare le donne e la loro specificità e persino il loro corpo attraverso le teorie del gender e la cosiddetta “fluidità di genere” per cui – come denuncia Maria Castiglioni – «il vincolo al corpo sessuato diventa ‘disponibile’, qualcosa che può dipendere da noi, secondo le opportunità, le convenzioni, le mode del momento. Quasi che il nuovo orizzonte di libertà sia raggiungibile solo attraverso la rinuncia al sesso e il mantenersi in una zona di mezzo, fluida, in un’indeterminatezza in cui la solida e irriducibile materialità del corpo è vissuta come anacronistica e liberticida». Così viene rimosso il corpo e, dunque, la genealogia madre/figlia, “la nostra radice”. E in tante interpretano questo cancellare il genere maschile e femminile come una forma di scorciatoia per eliminare ed aggirare il conflitto.
Dietro il discorso sulla neutralità, secondo molte delle donne che hanno preso parte al confronto, c’è un attacco alla maternità e alla libertà femminile che investe il piano materiale, dell’immaginazione e del simbolico. E non è un caso se molte ragazze che hanno ambizioni di carriera oggi vivono la maternità come un peso. Dello slogan originario delle femministe “il corpo è mio e lo gestisco io” si è persa la consapevolezza che questa determinazione era asserita all’interno di un ordine simbolico altro rispetto a quello patriarcale. E altre contraddizioni vengono registrate sul fronte del lavoro. Con la pandemia le donne sono state le prime a perderlo, sono le più precarie e sono le sole ad avere retto il peso della didattica a distanza dei figli. Di qui anche una riflessione sul lavoro agile che può diventare uno strumento per vivere meglio o una nuova gabbia che fossilizza le donne nel doppio lavoro, esterno e di cura.
«Che cosa è successo? – si sono chieste in tante – In cosa abbiamo sbagliato perché la teoria del gender, che cancella la nostra storia, acquistasse valore utilizzando le parole delle donne contro le donne e le femministe? Perché il nostro linguaggio è stato preso e lo si è trasformato contro di noi?» Questioni aperte che saranno oggetto di ulteriori riflessioni. Eppure, in questo quadro così problematico, non manca la consapevolezza che qualcosa sta cambiando nelle nuove generazioni come dimostrano i movimenti ambientalisti guidati dalle ragazze, le denunce delle studentesse del liceo di Castrolibero contro le violenze del loro professore e le proteste contro la logica della scuola-azienda. Da tutte la consapevolezza della necessità sia di luoghi di confronto sia di un nuovo alfabeto del conflitto che possa contrastare le forme di violenza.
(La Sicilia, 22 febbraio 2022)