di Maria Novella De Luca
Inversione dell’onere della prova? Ma figuriamoci. Affermare un concetto del genere in relazione al disegno di legge sul consenso, vuol dire non conoscere il processo penale». Teresa Manente, avvocata, esperta di violenza di genere, centinaia di processi alle spalle, a capo del team legale dell’associazione Differenza donna, spiega (e smonta) le critiche che hanno portato all’affossamento, in Senato, della modifica dell’articolo 609 bis del codice penale.
Ossia quell’unico articolo che introducendo la nozione di “consenso libero e attuale” per dimostrare se un atto sessuale è uno stupro o meno, avrebbe allineato l’Italia con quasi l’intera Europa, dove ventuno Stati hanno già approvato una identica legge.
La ministra della Famiglia Roccella, per motivare la marcia indietro della maggioranza sul disegno di legge, ha affermato che si rischia «l’inversione dell’onere della prova». È vero?
«Assolutamente no. È un errore giuridico. Esattamente come accade oggi nel processo penale in casi di stupro, ci sarà una donna che denuncia di essere stata violentata e un imputato che sostiene la consensualità dell’atto. Ma sarà sempre e comunque il pubblico ministero e non l’imputato a dover dimostrare se quel rapporto è stato o non è stato libero e volontario».
E allora qual è la differenza che l’articolo 609 bis introduce?
«La differenza è che la mancanza di consenso non dovrà più essere dimostrata attraverso la “resistenza” della donna, che magari non è fuggita, o non ha urlato, o non ha lesioni. Quante donne, lo sappiamo, durante uno stupro si immobilizzano come fossero congelate, per paura di morire, per cercare di non sentire l’orrore? È una sindrome ben nota e si chiama freezing.
D’ora in poi basterà affermare con una denuncia di aver detto no al rapporto sessuale e di non essere state rispettate, per dare avvio alle indagini. Perché il consenso appunto deve essere libero e reiterato. Anche durante l’atto la donna deve poter dire no ed essere ascoltata».
Ecco, Manente, su questo punto le critiche sono ancora più forti. E cioè che i confini del consenso o del dissenso sarebbero a volte labili e non sempre comprensibili.
«Vogliamo scherzare? Qui mi indigno davvero. Non esiste uomo o ragazzo che non sappia perfettamente se la donna o la ragazza che è con lui è consenziente o meno. Questo è davvero un retaggio maschilista: ho sentito miei colleghi dire che in certe situazioni l’uomo non si può fermare, anche se lei dice basta. Vi sembra consenso questo?».
Il ministro Salvini afferma poi che si lascerebbe «spazio a vendette personali da parte di donne e uomini» che userebbero la norma per risolvere questioni private.
«È la vecchia storia delle querele strumentali. Vorrei sapere quante sono, e se Salvini ha i numeri li tiri fuori. Questi numeri non ci sono perché si tratta di percentuali irrisorie, se esistono. Ho difeso centinaia di donne e non mi sono mai trovata di fronte a una denuncia per violenza non suffragata da fatti. Evidentemente il ministro non sa cosa vuol dire per una donna affrontare un processo per stupro. Si chiama calvario. Noi oggi siamo di fronte al dramma opposto: le vittime non denunciano per non dover affrontare il processo. E aver criminalizzato il concetto di “consenso libero” che così faticosamente avevamo cercato di far passare nelle aule dei tribunali, rischia di scoraggiare ancor di più le donne».
L’avvocata Bongiorno, leghista, presidente della commissione Giustizia del Senato, ha detto che per molti esponenti della maggioranza la norma sarebbe sbilanciata a favore della donna.
«Vorrebbe dire allora che anche la Convenzione di Istanbul, da cui questa legge discende e l’Italia ha sottoscritto, è un testo sbilanciato. Così come sbilanciate sarebbero le leggi sul consenso firmate da ben ventuno paesi europei. La verità è invece molto amara: non c’è la volontà politica di sradicare culturalmente la violenza di genere».
(la Repubblica, 27 novembre 2025)

