3 Novembre 2018
il manifesto

È #MeToo nella Silicon Valley: lo sciopero spaventa Google

di Marina Catucci

Motore di indignazione. Ieri sciopero e proteste mondiali dei dipendenti. Sono 48 i dirigenti allontanati negli ultimi due anni per molestie, ma in silenzio, tra cui 13 top manager, alcuni con buonuscite faraoniche

In tutto il mondo, cominciando dall’Asia, ieri, centinaia di lavoratori di Google si sono allontanati dai loro posti di lavoro allo scoccare delle 11 del mattino, ognuno secondo il proprio fuso orario, lasciando sulle scrivanie a mo’ di spiegazione un biglietto con scritto: «Sono uscito perché insieme ad altri colleghi vogliamo protestare contro le molestie sessuali, le condotte inappropriate, la mancanza di trasparenza e una cultura del lavoro che non funziona per tutti e per ottenere un vero cambiamento sul trattamento delle donne in azienda».

La protesta è indirizzata contro il trattamento mite e l’atteggiamento troppo accomodante di Google nei confronti dei dirigenti della compagnia accusati di molestie sessuali. Viene chiesto all’azienda di prendere in considerazione con serietà le denunce di abusi sessuali e di smettere di impedire alle vittime di fare causa.

Il casus belli risale alla scorsa settimana quando si è scoperto che Andy Rubin – uno dei manager più importanti del motore di ricerca, famoso per essere il creatore di Android – nel 2014, nonostante le accuse di molestie sessuali mosse nei suoi confronti fossero state giudicate credibili da Google, aveva ricevuto 90 milioni di dollari di buonuscita. Dopo la pubblicazione della storia da parte del New York Times, l’unica reazione è stata un commento dello stesso Rubin su Twitter dove ha definito la ricostruzione del quotidiano newyorchese «inaccurata».

Le fotografie e i video della protesta di ieri sono diventati virali in breve tempo, e questa è una gran brutta botta per Google che punta molto nel presentarsi con l’immagine di una specie di Eden dell’eticità a 360° (il suo celebre motto è Don’t be evil – Non essere malvagio), dove i lavoratori sono rispettati, sostenuti e quasi vezzeggiati. Il team di gestione di Google già la scorsa settimana, dopo la pubblicazione dell’articolo e del tweet di Rubin, aveva cercato di calmare le acque.

Sundar Pichai, ad della piattaforma e Larry Page, co-fondatore di Google e amministratore delegato della sua società madre Alphabet, si sono entrambi scusati. Pichai ha persino raddoppiato le scuse. Non solo, mercoledì ha rilasciato una dichiarazione sostenendo che il management della società era a conoscenza della protesta e che avrebbe sostenuto i dipendenti che desiderassero prendervi parte. «Hanno sollevato idee costruttive su come migliorare le nostre politiche e i nostri processi e stiamo prendendo tutti i feedback per poter trasformare queste idee in azione».

Gli organizzatori della manifestazione nelle loro istanze hanno chiesto, tra l’altro, la pubblicazione di un rapporto sulla trasparenza per i casi di molestie sessuali ma non solo. Trasparenza anche per quanto riguarda stipendi e indennizzi, l’inserimento di un rappresentante dei lavoratori nel consiglio di amministrazione e di un capo ufficio incaricato di occuparsi delle possibili discriminazioni sul lavoro in rapporto diretto con il consiglio di amministrazione.

La Silicon Valley, al di là della propaganda, ha fama di essere un club misogino per soli uomini. Nel 2017 Susan Fowler, ex ingegnere di Uber, raccontò su un blog di essere stata molestata e di essere stata vittima di pregiudizi di genere durante il periodo passato ai piani alti della compagnia. Disse che quando aveva denunciato le avances di un manager, l’ufficio del personale aveva rigettato la sua denuncia perché il manager in questione era «molto produttivo». Successivamente il manager minacciò di licenziarla per averlo denunciato all’ufficio del personale. Una volta che la storia è diventata di dominio pubblico, l’ad di Uber, Travis Kalanick, è intervenuto sulla vicenda per dire che il racconto di Fowler era «ripugnante, contrario a tutto ciò in cui crediamo».

Quindi ha incaricato l’ex procuratore generale Eric Holder di guidare indagini interne sul caso, sperando di bloccare l’indignazione anti Uber e i possibili riflessi non solo sulla committenza, ma – come si vede dalle proteste di ieri a Google – anche sui lavoratori, sottoposti dall’azienda a continui esami di correttezza e efficienza da parte dell’utenza ma – evidentemente – diretti da manager con libertà di nuocere.

(il manifesto, 2 novembre 2018)

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