1 Aprile 2021
il manifesto

E se la traduzione automatica mettesse fuori gioco tutti?

di Maria Teresa Carbone

Alla giornalista Alison Flood, che l’ha intervistata la settimana scorsa per il Guardian, Kate Briggs – traduttrice britannica da tempo trapiantata a Rotterdam – ha detto che ancora stenta a credere a quello che le è successo: «Quando ho ricevuto un’e-mail del presidente del premio Windham-Campbell, che mi chiedeva un appuntamento telefonico per annunciarmi buone notizie, mi sono detta che probabilmente avrei dovuto presentare qualche autore o tradurre un testo in vista dell’assegnazione».

E invece il riconoscimento – tra i più sostanziosi del mondo con i suoi 165mila dollari, l’equivalente di circa 140mila euro – è andato proprio a lei, che ha tradotto in inglese opere di Roland Barthes e Michel Foucault, ma soprattutto ha firmato come autrice un libro uscito nel 2017 e non ancora tradotto in italiano, This Little Art. Lo ha pubblicato la casa editrice londinese Fitzcarraldo […] e il tema centrale è la traduzione, trattata – a giudicare dalla motivazione della giuria – in modo decisamente originale.

This Little Art, scrivono infatti i responsabili del Windham-Campbell, «sfida le categorizzazioni: è al tempo stesso un memoir, un trattato e un saggio storico, dato che indaga la vita della stessa Briggs come traduttrice dal francese all’inglese, analizza natura e sfide della traduzione, e racconta le vicende di tre traduttrici del ventesimo secolo». Nel libro («bello, incisivo, provocatorio, avvincente sul piano intellettuale e emotivo», lo ha definito Kevin Breathnach su The Tangerine) Briggs presenta la traduzione «come pratica e arte, insieme solitaria e collaborativa, disciplinata e profondamente educativa, una devozione privata e un progetto pubblico, un’esperienza che eccita e frustra, e richiede a coloro che la praticano passione, rigore e disponibilità al cambiamento, alla trasformazione».

Sono parole rassicuranti in un periodo in cui la traduzione è diventata terreno di scontri identitari, ma è impossibile non chiedersi: fino a quando? E non per le polemiche in corso – destinate quasi sicuramente a estinguersi presto – ma perché è possibile, se non probabile, che fra trenta o quarant’anni, se non prima, le traduzioni automatiche avranno soppiantato quelle realizzate da donne e uomini in carne e ossa.

Forse, ce lo auguriamo, il fattore umano continuerà a prevalere, ma già oggi i risultati raggiunti da Google Translate e dai suoi concorrenti non sono neanche paragonabili alle goffe versioni di una quindicina di anni fa, quando il settore era agli inizi. E una rapida visita alla pagina che Wikipedia dedica appunto al servizio di traduzione sviluppato da Google dà un’idea di quanto il territorio si sia esteso: 109 le lingue già supportate, altre 61 in via di sviluppo.

Certo, ammonisce un recente servizio di Sophie Hardach per la Bbc, queste cifre sono un’inezia rispetto alle circa settemila lingue parlate nel mondo, di cui quattromila dotate di un sistema di scrittura. Ma anche qui la situazione è destinata a cambiare rapidamente, visto che lo Iarpa (Intelligence Advanced Research Projects Activity), vale a dire il settore ricerca dei servizi segreti americani, sta finanziando lo sviluppo di un sistema che individui, traduca e riassuma i dati da qualsiasi lingua a bassa circolazione in forma scritta e orale. E di ricerche analoghe nel mondo, scrive Hardach, ce ne sono diverse.

In questa prospettiva le discussioni su «chi può tradurre cosa» che hanno segnato gli ultimi giorni appaiono di colpo datate. Se le reti neurali fossero dotate di senso dell’umorismo, si può star sicuri che sogghignerebbero.

(il manifesto, 1°aprile 2021)

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