1 Dicembre 2021
La Stampa

Elogio della guerra tra i sessi

di Lucetta Scaraffia


Abbiamo visto le immagini delle manifestazioni svoltesi nelle principali città per la giornata contro la violenza sulle donne, abbiamo letto gli slogan, che sono anche diventati titoli dei principali quotidiani: contro «la violenza di genere», contro «il femminicidio», contro la «cultura patriarcale», contro la «mascolinità tossica». Non voglio discutere la sostanza del messaggio su cui ovviamente sono d’accordo. Ma, mentre leggevo e ascoltavo, mi ponevo una domanda: tutte le manifestazioni dei giorni scorsi evocavano una lotta in corso fra uomini e donne, parlando addirittura di femmine e maschi. Questo linguaggio così esplicito, che non esita a citare esseri umani definiti biologicamente come una realtà di fatto, non costituisce forse una smentita alla tendenza ispirata al politicamente corretto che considera l’umanità non più divisa e auspicabilmente non più divisibile in due sessi opposti, ma composta da persone non definite dal punto di vista dell’identità sessuale? Cioè alla visione che ispira la legge Zan? Le manifestazioni di cui stiamo parlando ci hanno ricordato un fatto decisivo per la storia del ’900 e forse ancora di più del secolo in corso, e cioè che proprio la guerra fra i sessi è stato ed è ancora il motore di un mondo nuovo, di una nuova moralità, di un nuovo senso di giustizia nato dalla realtà esistente fino a oggi di una società divisa in due campi ben definiti, le donne e gli uomini, in cui le donne erano e sono potenziali vittime e gli uomini potenziali carnefici. Questa realtà e la sua rappresentazione sono il residuo di un passato da cancellare? Niente affatto. È proprio la dialettica fra donne e uomini – e non la sua negazione – da quando è diventata vivace confronto e in alcuni casi scontro, che ha prodotto e continua a produrre nuovi orizzonti di maggiore giustizia e libertà. La profonda trasformazione culturale avvenuta in tutte le società occidentali grazie alle innovazioni scientifiche e alle rivoluzioni sessuale e femminista, che hanno cambiato le nostre società nella seconda metà del Novecento, hanno permesso infatti alle donne di tenere un comportamento sessuale libero, come era sempre stato possibile per gli uomini, dando il via tra mille altre cose anche ad un processo di cambiamento legislativo che ha portato a punire con severità stupro e femminicidio. È stato proprio il nodo della violenza e dell’abuso che, una volta sciolto, ha permesso la liberazione femminile. La conseguenza positiva più evidente della rivoluzione sessuale infatti è stata quella di liberare le donne da un giudizio su di loro limitato al solo comportamento sessuale, qualunque fossero le loro qualità e competenze. Così esse hanno potuto parlare, denunciare abusi sessuali senza venirne immediatamente “sporcate”, moralmente condannate. Si assiste così all’introduzione della pietà nel dibattito pubblico, aprendo nuove dimensioni alla comunicazione, quelle legate alle emozioni e all’indignazione, che impongono che venga segnalato un persecutore: in questo caso lo stupratore, il violento. È stato dunque proprio l’esistenza di un conflitto tra uomini e donne, cioè dello scontro fra due sessi diversi e biologicamente distinti, che ha consentito questo insieme di radicali trasformazioni che ha creato uno spazio pubblico per il riconoscimento del crimine, in una situazione in cui abitualmente niente era detto in modo aperto. È stata la lotta delle donne contro il maschilismo e il patriarcato che ha consentito la profonda trasformazione della morale pubblica di cui ha parlato Marcel Gauchet, nel suo saggio sulla fine del patriarcato, consistente nell’affermazione dell’autorità del materno. All’autorità pubblica maschile si sostituisce così una diversa autorità, quella del materno, che continua a prescrivere e a vietare, ma la cui stella polare è il principio di legittimità generale che garantisce l’uguaglianza fra i sessi, quindi i diritti degli individui. Un’autorità che assume come simbolo fondante la preoccupazione per l’altro, che si prende cura delle persone e della loro vita. Le donne quindi – le donne o forse dobbiamo dire le persone con utero e mestruazioni come vorrebbero gli ultrà del politicamente corretto – stanno imponendo nella vita quotidiana una nuova morale, che porta con sé il riconoscimento dei diritti di tutte le vittime. Ne è una prova la nuova attenzione e la severità con cui vengono affrontati i casi di abuso sessuale sui minori e l’attenzione verso i diritti dei portatori di handicap. Di fronte a questa prospettiva, che nasce dal conflitto ma mira al suo superamento in nome del punto di vista femminile, le rivendicazioni dei transgender e degli omosessuali a favore dei loro diritti appaiono quasi delle rivendicazioni corporative, che non segnano ma dipendono da un movimento storico di liberazione ben maggiore e ben più ampio, che in definitiva è ciò che garantisce anche la loro libertà. Il conflitto fra donne e uomini reale e indiscutibile rappresentazione di una umanità composta da due sessi non è qualcosa che possa essere negata o da superare come un deplorevole residuo del passato. È stata e continua ad essere uno dei presupposti per il progresso della libertà umana. Perché questi cambiamenti aprono orizzonti nuovi anche per i transgender, gli omosessuali e qualsiasi minoranza voglia conquistare la propria libertà e il proprio rispetto. Ma non si deve dimenticare che questo grande passo in avanti è stato fatto proprio a partire da un conflitto fra donne e uomini, all’interno di una rappresentazione dell’umanità divisa in due, che quindi non è qualcosa da buttare via, ma una base fertile per il progresso dell’umanità.


(La Stampa, 1 dicembre 2021)

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