10 Settembre 2020
La Stampa

Emma Dante: “Il mio è un racconto sui legami e sulle cose che durano”

di Fulvia Caprara


LIDO DI VENEZIA – Nel mondo meraviglioso delle femmine, quelle che si mettono il rossetto e danzano sulle punte, quelle che si innamorano dei libri come se fossero fidanzati, quelle che cucinano il «pesce finto» e quelle che vanno matte per i pasticcini, può succedere che la morte bussi alla porta con tutta la sua malvagia violenza, senza riuscire, in nessun caso, a soffocare la vita. Dal palcoscenico al set, Emma Dante racconta le sue sorelle geniali in un film potente e anche sfidante perché costringe lo spettatore a confrontarsi con la durezza del dolore, con il peso del senso di colpa e con la sconcezza della malattia, senza offrire vie di mezzo, avanti e indietro, sulle montagne russe delle emozioni: «La parola sorellanza mi fa tornare bambina, mi fa pensare alle guerriere, alle conquiste, all’amore, al legame e alla forza che si ha quando si è insieme».

Il femminile, dice Dante, ieri in gara con Le sorelle Macaluso (tratto dall’omonima pièce teatrale e da oggi nelle sale con «Teodora Film»), «non si esaurisce nella descrizione della sensualità, anzi, forse, è il contrario, perché la sensualità può stare dove meno te l’aspetti». Per le 5 protagoniste della storia, Maria, Pinuccia, Lia, Katia, Antonella, raccontate in tre momenti decisivi delle loro esistenze, la sensualità può essere un bacio lesbico, scambiato tra una sedia e l’altra di un cinema all’aperto, ma anche un costume indossato in fretta, per andare sulla spiaggia di Mondello, accanto a uno stabilimento che è come una terra promessa: «Negli Anni ‘90 a Palermo il Charleston era un’istituzione, ci andavo da piccola e anche io, come le protagoniste del film, mi infilavo con gli amichetti tra le palafitte che lo sorreggevano. Oggi è tutto cambiato, il posto ha un altro nome, ma quel riverbero della luce sull’acqua mi è rimasto impresso».

Alle sue attrici, 12 in tutto, Emma Dante non ha chiesto di invecchiare, niente «make up» pesanti, meglio puntare su volti diversi, che riuscissero a rendere il senso profondo del passare del tempo: «Mettere rughe sul viso di Donatella Finocchiaro sarebbe stato un peccato mortale. Il tempo è il protagonista della storia, una specie di chirurgo plastico che modella i corpi delle persone. A 80 anni siamo diversi da come eravamo a 40, la somiglianza fisica non ci può essere, c’è, però, una persistenza della gestualità, sono quei gesti che ci fanno restare gli stessi di prima».

Nella casa delle Sorelle Macaluso, piena di disordine familiare, abitata da «oggetti ottusamente resistenti, il lampadario, il tavolo, il letto matrimoniale, la finestra, oggetti costruiti dai morti e appartenuti ai morti, che probabilmente sopravvivono ai vivi», scorrono epoche differenti, senza un piano predisposto, con quella casualità banale e spesso cinica che fa morire in un incidente Antonella, la più piccola delle sorelle, che fa ammalare di cancro quella che voleva fare la ballerina, che costringe Pinuccia (Donatella Finocchiaro) a diventare la custode insofferente di Lia (Serena Barone): «Il mio è un film sul tempo. Sulle cose che durano. Sulla vecchiaia come traguardo incredibile della vita».

La scena, occupata, come negli spettacoli teatrali dell’autrice, dalla fisicità esplosiva delle protagoniste, si illumina a tratti di canzoni che non sono accompagnamento né colonna sonora, ma «hanno sempre una precisa funzione narrativa, aiutano lo spettatore a capire quello che sta succedendo». Gli animali, con cui Dante dice di avere «un rapporto speciale», sono più che mai presenti e protagonisti, lo stuolo di colombe, che abita nella colombaia sopra l’appartamento delle Macaluso, sembra partecipare agli eventi della storia, riempiendo pause, solitudini, vuoti: «Sul set le abbiamo coccolate più degli attori». Una delle riflessioni alla base del film, scritto con Elena Stancanelli e Giorgio Vasta, riguarda, spiega la regista, «la forza vitale della memoria. L’amore fra le sorelle e quello per la casa in cui vivono, tiene in vita la loro intera esistenza come fosse un unico organismo vivente». La casa muore solo quando si svuota, ma è difficile immaginare che i fantasmi di quelle inquiline non continuino ad aleggiare per sempre, con tutto il loro carico di vitalità disperata.


(La Stampa, 10 settembre 2020)

Print Friendly, PDF & Email